Referendum: perché la riduzione sic et simpliciter del numero dei parlamentari va respinta

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di Guglielmo Agolino

Confesso che il tema su quale debba essere il numero di parlamentari più idoneo a rappresentarci non mi appassiona. Non è, infatti, semplicemente il loro numero (e cioè la quantità) ad essere dirimente, quanto piuttosto la qualità di chi è chiamato ad assumere l’ufficio di parlamentare ad essere rilevante. Cionondimeno, atteso che questa riforma si occupa di ridurre il numero dei parlamentari, con essi (e cioè coi numeri) dobbiamo confrontarci. Mi sia consentito, in premessa, svolgere però due brevi riflessioni preliminari.

La prima riguarda l’idea che la riforma debba essere rigettata quasi come moto protettivo nei confronti della “Costituzione più bella del mondo” scritta dai nostri “padri Costituenti”. Ecco, tale impostazione mi sembra essere il frutto di una presa di posizione aprioristica. Ciò, invero, per almeno due ragioni, che forse appariranno banali, ma che meritano di essere ricordate: a) i Costituenti stessi idearono un meccanismo di revisione della Costituzione, che indicarono all’art. 138, a testimonianza del fatto che proprio il testo della Costituzione, ancorché con maggioranze qualificate, potesse essere oggetto di revisione; b) l’attuale numero dei parlamentari (cioè 945) non fu il frutto di una scelta del Costituente del ’46-47, ma esattamente di una revisione (ex art. 138 Cost.) operata con la legge costituzionale n. 2 del 1963. Cioè, l’attuale numero dei parlamentari che il NO difende è il frutto di una scelta di aritmetica costituzionale diversa dalla quella operata dalla Costituente (che non prevedeva un numero fisso, ma una proporzione) e, dunque, che nulla ha a che vedere con una scelta dei “padri Costituenti”.

La seconda riguarda, per semplificare, il refrain che vedrebbe nel rigetto della riforma una sorta di “pietra tombale” sulla strada delle riforme costituzionali. Si dice, dunque, che per evitare di sprofondare nelle sabbie mobili sarebbe auspicabile approvare tale riduzione del numero dei parlamentari così com’è e con tutti i suoi limiti che in molti rilevano. Anche tale impostazione, confesso, non mi convince. In primo luogo, perché, se da un lato non è vero che il testo della Costituzione debba essere difeso a tutti i costi da eventuali modifiche, dall’altro lato esse (e cioè le modifiche) non possono essere il frutto di decisioni assunte con leggerezza. Il terreno delle riforme costituzionali è un po’ come il campo del vasaio, d’argilla e scivoloso e, dunque, occorrerebbe muoversi cum grano salis nel progettare modifiche costituzionali. In secondo luogo, perché anche all’indomani della bocciatura della riforma Renzi-Boschi, il 4 dicembre 2016, si sosteneva che non si sarebbe più parlato di riforme costituzionali per (almeno) i successivi dieci anni, ed invece eccoci qui. Dunque, non è affatto dimostrato che da un’eventuale bocciatura possa derivarne il pantano.

Esaurite queste due premesse, se vogliamo, di cornice, occorre dirigersi verso il merito della riforma. Tralasciando, per brevità, l’enunciazione dei tratti salienti della riforma (cioè riduzione da 945 a 600 del numero dei parlamentari, eccetera), che a questo punto del dibattitto pubblico sono noti a tutti, sembra essere più conveniente ricordare le ragioni a sostegno della riforma, per coglierne la bontà o, eventualmente, le sue criticità.

La relazione che accompagna il testo della legge di riforma costituzionale evidenzia come la riduzione del numero contribuirebbe a diminuire i “costi della politica” e rendere “più efficiente” il lavoro del Parlamento.

Ora, sul primo dei due temi (costi della politica) non può non dirsi che la riforma raggiunga, effettivamente, tale risultato. Il taglio lineare del 36,5% del numero dei parlamentari contribuirà senz’altro a diminuire la spesa secondo il semplice postulato: “meno onorevoli, meno stipendi (e privilegi annessi) da pagare”. Certo è, come rilevato dall’autorevole Osservatorio sui Conti Pubblici diretto da Carlo Cottarelli, che questo “risparmio” ammonterebbe a circa 58 milioni di euro all’anno. Tradotto, per semplificare, si tratterebbe di un caffè per ogni italiano, lo 0,007% della spesa pubblica. Sotto questo primo profilo, dunque, la domanda da chiedersi è se “un caffè valga bene 345 parlamentari in meno”.

Correndo il rischio di scivolare su un terreno impopolare, vorrei però provare a spingere la mia riflessione un po’ oltre, per allargare lo sguardo: siamo davvero così convinti che sia necessario ridurre i costi della politica? Non sarebbe, invece, utile pensare di introdurre (re-introdurre) dei meccanismi, anche economici, di sostegno alla Politica (si badi: la p maiuscola non è lì a caso). Sto parlando, in altre parole, di forme di finanziamento pubblico alla politica, ai soggetti che la interpretano (partiti, movimenti, ecc).

Provo a spiegarmi, essendo consapevole che il rischio di essere frainteso è alto. Non è, forse, la mancanza di risorse pubbliche da indirizzare a chi, secondo il testo della nostra Costituzione dovrebbe “concorrere a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.) una delle principali ragioni (certo non l’unica!) del distacco tra i politici e i cittadini, tra l’eletto e l’elettore? Allora quello da fare, con urgenza, non sarebbe altro che cercare di colmare questo burrone che si è creato. Mi sfugge come sia possibile raggiungere questo obiettivo, acuendo ancora di più questa distanza, tagliando con la ghigliottina il numero di chi ci rappresenta, senza prevedere forme di correzione alle storture che il taglio provocherebbe.

Certo, se privilegi esistono nella “casta” essi vanno aggrediti, se ci sono “zone opache” che permettono ai politici di sperperare i soldi dei contribuenti in spese che nulla hanno a che vedere con l’esercizio del mandato politico bisogna intervenire e rendere impossibile che ciò accada. Allo stesso tempo, tuttavia, sostenere con denaro pubblico l’iniziativa politica di partiti/movimenti è un servizio che non può che far bene alla qualità della nostra democrazia. Contribuirebbe ad evitare che, a far politica, possa essere solo chi è in grado di disporre di ingenti risorse economiche private o concesse da interessi particolari (che chiederanno il conto prima o poi) o a chi, al contrario, abbia il merito di essere esclusivamente fedele al capo, come in un’antica corte medievale. In altre parole, sotto questo aspetto, la riforma, sola, contribuisce a rendere, mi sia permesso, la “casta” ancora “più casta” e a ridurre la nostra classe politica ad una enclave selezionata in base al censo o alla fedeltà. Esattamente l’effetto opposto che i promotori di questa riforma si auspicavano.

In ordine al secondo profilo, invece, la posizione di chi ritiene che dalla riduzione del numero dei parlamentari possa discendere una maggiore efficienza del lavoro delle Camere mi pare del tutto indimostrata.

Anzitutto perché non è una verità assoluta che per lavorare meglio si debba essere in pochi. In secondo luogo, perché già l’attuale organizzazione dei lavori del Parlamento prevede che il centro dell’attività risieda nelle Commissioni permanenti e, cioè, in organi che sono composti da frazioni numeriche di parlamentari di molto inferiori rispetto al plenum delle Camere. In tali sedi, anche con l’attuale composizione, non sembra che l’efficienza sia minata del numero di componenti. Se così fosse, allora, prendendo come riferimento solo la nostra Camera “bassa” (cioè la Camera dei deputati) dovremmo ritenere che, in un’ottica comparata, anche tutte le altre Camere basse degli altri Paesi del mondo con più di 600 componenti lavorino in una composizione numerica “inefficiente”. Elemento che, invece, non sembra emergere. Semmai, al contrario, le ragioni di questa mancanza d’efficienza vanno ricercate altrove. In particolare, per brevità, mi sembra possano essere individuate, da un lato, nel sistema bicamerale perfetto (o piuccheperfetto, secondo alcuni) che appesantisce il procedimento legislativo, a danno della rapidità delle decisioni; dall’altro, invece, nella prassi, alquanto censurabile, che fa dipendere la produzione normativa esclusivamente dal continuo utilizzo dello strumento del decreto-legge, sulla cui legge di conversione, spesso, il Governo finisce per apporre la questione di fiducia, in un rapporto perverso tra Legislativo ed Esecutivo, tutto sbilanciato a favore di quest’ultimo. Insomma, ragioni arcinote, che, come è evidente, nulla hanno a che vedere con la composizione quantitativa delle Camere.

Inoltre, la riduzione del numero dei parlamentari sic et simpliciter, così come proposta, rischierebbe di imporre, a regolamenti parlamentari invariati, un giogo ancora maggiore all’attività parlamentare. Al Senato, ad esempio, la stabilità della maggioranza parlamentare nelle quattordici Commissioni permanenti verrebbe messa a dura prova. Il combinato disposto tra una legge elettorale proporzionale (promessa, ma di cui ancora si sa poco a parte il progetto del c.d. “Brescellum) e la riduzione dei componenti delle Commissioni ad una dozzina di senatori, rischierebbe che la maggioranza in Commissione si limiti ad essere composta da 1-2 senatori in più. Un numero non sufficiente a garantire, con una certa stabilità, la maggioranza parlamentare con ricadute negative evidenti. Ancora: tenuto conto che la riduzione del numero dei parlamentari inciderà inevitabilmente sulle forze politiche minoritarie in Parlamento, senza una diminuzione del requisito minimo di parlamentari richiesto per la costituzione di un gruppo parlamentare (di norma 20 alla Camera, 10 al Senato), in entrambi i rami del Parlamento, sarà più difficile costituire gruppi parlamentari anche per forze politiche sì piccole, ma non del tutto irrilevanti numericamente.

Sono solo due esempi che, in conclusione, dimostrano come anche in questo caso l’esito della riforma, a quadro invariato, conduca ad un risultato opposto rispetto a quello voluto dai promotori della riforma.

Sembrerà banale dirlo, ma mettere mano alla Costituzione è un’attività seria. Per tale ragione, quando si decide di farlo, lo si deve nel massimo rispetto e ponendo attenzione a tutte le conseguenze (dirette ed indirette) che ciò può avere su tutto l’assetto costituzionale e, in questo caso, anche istituzionale.

Come nella famosa storia della gattina frettolosa che fece i gattini ciechi, a me sembra, volendo escludere che tale riforma fosse stata pensata per relegare la funzione del Parlamento in secondo piano rispetto ad un progetto di “Terza Repubblica” fondata sulla “democrazia diretta”, che la riduzione del numero, al fondo, ci dica una cosa: stiamo guardando al dito e non alla luna. Sarà probabilmente benaltrismo, di cui mi si scuserà, ma non mi convince l’idea di fondare l’assetto di una nuova stagione di riforme costituzionali sull’aritmetica (il numero dei parlamentari) piuttosto che sulla geometria (la forma di governo e dintorni). Ecco perché credo che siano da condividere le ragioni di chi ritiene che la (sola) riduzione del numero dei parlamentari vada respinta.

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