Al termine di una campagna referendaria troppo breve, anche se molto intensa, ho maturato una convinzione riguardo alla riduzione dei parlamentari su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi il 20 e il 21 settembre prossimi: quella su cui voteremo non è una banale questione numerica, ma una revisione che mette in gioco valori di fondo del nostro sistema costituzionale. Un taglio così drastico (di un terzo dei componenti delle Camere!) è, infatti, coerente, a ben vedere, soltanto con alcune visioni della democrazia. Ne ho individuato quattro, in particolare.
La prima è quella della democrazia diretta digitale: l’utopia che affascina gli esponenti e i seguaci del M5S. Un’utopia che può facilmente convertirsi nel suo opposto: una distopia. In questa visione, gli strumenti della democrazia diretta dovrebbero sostituirsi a quelli della democrazia rappresentativa che, a sua volta, secondo la profezia di Casaleggio, dovrebbe essere superata un giorno dallo sviluppo dei mezzi digitali. Si tratta di una chimera, per inseguire la quale, tuttavia, potrebbe darsi luogo a un progressivo smantellamento delle istituzioni rappresentative.
La seconda visione è quella della democrazia maggioritaria, decidente, dell’alternanza. Un modello che, nel nostro Paese, ispira tanti riformatori di destra e di sinistra da almeno una trentina d’anni. È l’idea che un sistema bipolare possa nascere dalla giusta combinazione di regole costituzionali ed elettorali. Ma anch’essa non riesce a fare i conti con la realtà. Il passaggio al maggioritario, nel 1993, non ha trasformato l’Italia nel Regno Unito e l’endemica frammentarietà politica ha solo cambiato sede, producendo coalizioni occasionali, di convenienza, estremamente fragili. Il bipolarismo è il portato della cultura politica di un popolo, non il semplice prodotto di un sistema normativo.
La terza visione è quella della democrazia “giudiziaria”. Corrisponde all’idea che giudici e corti siano i soli soggetti istituzionali legittimati a decidere sulle questioni pubbliche fondamentali, in forza di una loro presunta superiorità morale o semplicemente perché dispongono dei mezzi per poterlo fare. Chi muove da questa convinzione non si cura molto degli effetti che il taglio di un terzo dei componenti del Parlamento potrebbe provocare, qualora i partiti – com’è probabile che accada – non riuscissero a trovare un accordo sulla legge elettorale. Ci penserà, infatti, ancora una volta la Corte costituzionale, a fronte di un Parlamento sempre più delegittimato.
C’è, infine, una quarta visione che talvolta fa capolino tra i sostenitori del SÌ: quella di una democrazia partecipativa e localistica del tutto autosufficiente. Si tratta di una concezione che sopravvaluta il ruolo delle assemblee regionali e locali, ritenendole fungibili rispetto al Parlamento nazionale. Chi s’ispira a questa idea trascura che le materie sulle quali il legislatore statale esercita le sue funzioni sono tante e fondamentali e che sono le Camere a concedere e a togliere la fiducia al Governo. Ma soprattutto trascura il fatto che è il Parlamento il luogo in cui la complessità politica e sociale può trovare una risposta unitaria, attraverso l’esercizio della rappresentanza nazionale.
C’è – è vero – anche chi spera che tagliando i parlamentari, risulti ovvio a tutti che occorra cambiare in senso proporzionale la legge elettorale ma è un auspicio simile a quello di chi mette un lupo affamato in mezzo a un gregge di pecore, immaginando che si metta a brucare l’erba insieme a loro…
Quelle dominanti tra i sostenitori del SÌ sono visioni inconciliabili tra loro e sarà difficile che prospettive così distanti trovino una sintesi in un processo di riforme condiviso. Un elemento però le accomuna tutte: la svalutazione del Parlamento. Organo obsoleto, per i sostenitori della democrazia diretta digitale. Regno di una forte maggioranza di governo, per i promotori della democrazia decidente. Istituzione corrotta e dannosa, per i fautori della democrazia “giudiziaria”. Luogo distante dalle presunte sedi reali della sovranità popolare, per i sostenitori della democrazia partecipativa e localistica. C’è molta confusione nell’attuale dibattito pubblico sulle riforme ma è chiaro che, se passerà il taglio dei parlamentari, a essere sconfitta sarà l’idea del Parlamento come sede di espressione del pluralismo politico e culturale. Il cuore della nostra democrazia.
Non capisco su quali elementi obiettivi l’autore fondi l’amalgama fra una riduzione puramente numerica delle due camere e 1.la democrazia diretta, 2. una democrazia dicastocratica e 3. una democrazia decentralizzata. Contesto energicamente le tre supposizioni. Capisco invece il nesso con il principio maggioritario: un’assemblea meno numerosa è per definizione, ceteris paribus, meno frammentata. Non significa che non possa lo stessa rispondere all’ideale della rappresentanza proporzionale (degli schieramenti), che è sempre solo una correzione del principio maggioritario che fonda la democrazia (e costituisce la migliore garanzia delle minoranze!).
L’ “amalgama” stava nelle argomentazioni dei diversi sostenitori della riforma. Non ho valutato la solidità e la fondatezza delle argomentazioni stesse.