Per ragionare delle conseguenze di una così drastica riduzione del numero dei parlamentari, vanno ben distinte due differenti prospettive di valutazione.
La prima riguarda l’elemento testuale della modifica, che incide in maniera puntuale e quasi chirurgica solo sul dato numerico dei rappresentanti. Non una circostanza indifferente, se è vero che i numeri in una democrazia “contano assai più di quanto non appaia a prima vista” (Carrozza). Eppure, è vero che il rapporto tra eletti ed elettori è un utile misuratore della rappresentanza, ma questo dato, da solo, nulla ci dice sull’adeguatezza e sulla legittimità di quest’ultima. Si può ragionare forse sulla congruenza di quel numero più contenuto di parlamentari rispetto alle necessità di funzionamento delle Camere, ma questa, più che questione di numeri è questione di regolamenti parlamentari e della loro necessaria revisione. Nella sostanza, non esiste un numero magico a cui conformarsi nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, né dal punto di vista della rappresentanza appunto (anche se qualcuno ha provato a stabilirlo, con la famosa regola della radice cubica di Taagepera) né dal punto di vista della funzionalità. La riduzione numerica, di per sé, ci dice poco degli effetti di questa proposta emendativa, che appare neutra ed incolore se non viene inserita in un più ampio piano di valutazione che guardi alla “rappresentatività” del nuovo Parlamento ridotto (vedi Morelli su questa rivista).
Questa seconda prospettiva, organica e sistemica, impone di ragionare sugli effetti, di certo incisivi, che una più esigua dimensione delle Camere potrà avere sul sistema dei partiti politici. Soprattutto in un periodo storico in cui le aggregazioni partitiche non sono più realtà fisiche che esistono al di fuori della loro proiezione elettorale e parlamentare, ma realtà virtuali, che si gonfiano e collassano in ragione del momentaneo consenso (Conti). Ridurre i parlamentari significa certamente ampliare la forbice eletti/elettori, ma anche avviare inevitabilmente un positivo processo di semplificazione politica. Infatti, la dimensione più esigua delle assemblee comporta, anche con un sistema elettorale totalmente proporzionale, una più contenuta rappresentazione dei partiti più piccoli. Una spinta all’aggregazione, almeno nell’immediato, che non andrebbe sterilizzata, ma sostenuta con l’approvazione di una legge elettorale che abbia chiare tendenze sintetiche. Deve poi considerarsi che, in un Parlamento ridotto, aumenterebbe significativamente l’influenza personale del singolo parlamentare, sia perché chiamato a rappresentare collegi più vasti e popolosi, sia perché maggiormente contenuti i gruppi parlamentari. In questo senso, è vero certo che, in un sistema di partiti orientato su leadership forti e temporanee, crescerà il potere di chi potrà scegliere candidati e ruoli, ma allo stesso tempo aumenteranno le possibilità di visibilità del singolo. Una spinta a mettere in discussione segreterie affermate.
Ecco, da questi brevi ragionamenti si delinea l’idea che una riforma neutra può divenire l’occasione per avviare un percorso più generale di rinnovamento del nostro sistema politico/partitico, soprattutto immaginando di accompagnarla con provvedimenti incisivi, che guardino all’introduzione di nuovi modelli elettorali ovvero alla sempre richiamata ipotesi di dare finalmente attuazione alla previsione dell’art. 49 della Costituzione, nel senso di creare all’interno dei partiti strumenti di selezione della classe dirigente e di contendibilità della stessa. Ad una riforma sbiadita si può dare un colore.
Ancor più se a queste prime due prospettive, l’una testuale e la seconda di sistema, sommiamo una terza, che potremmo definire programmatica. Infatti, questo intervento di revisione costituzionale sembra in una qualche maniera inaugurare un approccio nuovo alla riforma della Carta fondamentale, non più organica ed inevitabilmente disomogenea, ma puntuale e con un oggetto definito. Dopo il fallimento dei grandi progetti di riforma del 2006 e del 2016, vi è una generale consapevolezza sul fatto che il sistema dei partiti sia divenuto instabile e che, con sempre maggiore difficoltà, esso riesca ad animare quelle spinte ideali, che sono poi essenziali per costruire un ampio consenso intorno ad un grande progetto e ad una visione alternativa delle regole fondamentali della nostra convivenza. Al contrario, il puntuale oggetto della revisione e di conseguenza l’omogeneità del quesito del referendum confermativo conseguente si pongono essi stessi come elemento di chiarezza reciproca tra cittadini e legislatore costituente. Non è un caso che una certa dottrina, soprattutto in passato, estendendo i principi della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di omogeneità del referendum abrogativo anche al referendum confermativo, sia arrivata a sostenere l’impossibilità di riforme costituzionali totali e sistemiche perché non sottoponibili all’eventuale vaglio referendario (Pace). La partecipazione popolare al procedimento di revisione costituzionale, concepita in realtà dai costituenti solo in funzione oppositiva, sembra oggi acquisire, con questo tentativo di revisione, un significato tutto differente. Il referendum confermativo si trasforma in un elemento di dialogo, che intende coagulare la volontà riformatrice del legislatore con il consenso popolare, garantito dalla chiarezza e specificità del quesito. La revisione costituzionale diviene allora una prospettiva di lungo periodo, da sviluppare per punti agili, partendo da elementi anche non primari ma condivisi. In tale prospettiva, questa riforma potrebbe rappresentare, ove passasse il vaglio referendario, l’avvio di un processo più lento ma efficace di modifica della nostra Costituzione, che per alcune questioni appare non più rinviabile.