Che cosa è successo nel Parlamento alla vigilia dell’elezione del PDR? I movimenti tra i gruppi e l’instabilità politica degli eletti

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di Roberto Bin

In tutti questi mesi il prof. Curreri ha mantenute aggiornate le tabelle degli spostamenti di deputati e senatori da un gruppo all’altro iniziati all’indomani delle elezioni del 2018. Come si può vedere, il Parlamento che – con l’integrazione dei rappresentanti delle regioni – si avvia a eleggere il nuovo Capo dello Stato è assai diverso da quello eletto dai cittadini italiani nel 2018. Verrebbe da chiedersi quale legittimazione politica esso abbia: è opportuno che un Parlamento trasformista elegga un Presidente che rimarrà in carica sino al 2029, quando esso stesso dovrà essere rieletto, al più tardi, all’inizio del 2023? Non sarebbe meglio che il nuovo Presidente fosse eletto dal nuovo Parlamento?

E’ questa domanda che mi spinge ad augurarmi che i partiti abbiano un momento di autoconsapevolezza e vadano a chiedere a Mattarella di restare in carica ancora pochi mesi: sino allo scioglimento delle Camere e alla loro rielezione. Il Presidente prorogato, se necessario, avrebbe il potere di sciogliere le Camere anticipatamente e di riavviare una nuova stagione politica.

Certo, che per la seconda volta consecutiva si opti per la proroga dei poteri del PDR in carica non sarebbe un segno di buona salute delle istituzioni costituzionali. Su questo Mattarella ha ragioni da vendere quando respinge l’ipotesi della sua rielezione. Ma non è la febbre la causa della cattiva salute. Le nostre istituzioni costituzionali attraversano da tempo una condizione di grave crisi: il Parlamento non è in grado di legiferare ed è diventato teatro di scontri picareschi anziché di un serio dibattito politico. Gli stessi partiti politici, che al Parlamento dovrebbero dare forza e organizzazione, si sono sciolti nel nulla, mantenendo una facciata televisiva e poco più: l’abrogazione del finanziamento pubblico – che fa dell’Italia un caso più unico che raro in Europa – ne ha distrutto il retroterra e il funzionamento, e la crisi del Parlamento ne è una conseguenza. A sua volta si riflette nel malfunzionamento degli altri organi costituzionali, a partire dalla Corte costituzionale di cui le Camere eleggono parte dei membri e che dovrebbero esserne l’interlocutore necessario. Se appelli e moniti rivolti dalla Corte costituzionale al legislatore quando si trovi di fronte a problemi di incostituzionalità difficili da risolvere con una sentenza non trovano seguito in una rapida iniziativa legislativa, la Corte si trova di fronte alla triste (e devastante) scelta tra lasciare i diritti costituzionali privi di tutela o arrabattare decisioni che talvolta vanno oltre i limiti della decenza giuridica.

Non è che l’elezione del nuovo PDR risolverà tutti questi problemi. Ma rinviarla a dopo l’elezione del nuovo Parlamento sarebbe un gesto positivo, capace di distendere il clima tra i partiti ed evitare che lo scontro politico si faccia aspro e si rifletta sul delicatissimo equilibrio che sostiene il Governo.

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4 commenti su “Che cosa è successo nel Parlamento alla vigilia dell’elezione del PDR? I movimenti tra i gruppi e l’instabilità politica degli eletti”

  1. Alla domanda iniziale risponderei con un risoluto no. A meno che, dopo aver omogeneizzato le due camere, vogliamo omogeneizzare pure la PdR?

    Anche per l’elezione del prossimo capo dello stato sono relativamente fiducioso: sarà un altro Mattarella che si chiamerà diversamente, uomo o donna che sia. Non è tanto l’uomo quanto la funzione come prevista dai padri costituenti che mi rassicura: un “sovrano dormiente” (Richard Tuck 2015 commentando il De Cive di Hobbes) che si attiva solo quando l’assemblea eletta non è in grado di decidere. Il Presidente uscente ha interpretato il suo ruolo in modo esemplare: avendo provato a convincere una maggioranza 5s e PD di sostenere un governo Cottarelli ha accettato, dopo il rifiuto del presidente dei democratici di sostenere un governo con i 5s, di nominare un professore sconosciuto in grado di ottenere la fiducia della coalizione più bizzarra della storia repubblicana, ma si è opposto alla nomina proposta dal PdCM designato di un euroscettico come ministro delle finanze. Un capolavoro, tenuto conto dei veti incrociati dei vari attori politici! Il ruolo del PdR era quello minimo, da sleeping sovereign, quando un anno e mezzo dopo la maggioranza è cambiata ancorché con lo stesso PdCM. Altro capolavoro presidenziale, ora da acting sovereign, è stata la nomina del PdCM in carica appoggiato da una maggioranza quasi da unità nazionale.

    Quale vantaggio avrebbe l’elezione del PdR dallo stesso Parlamento di quello che poi deve votare la fiducia a un governo? Non si distruggerebbe così il ruolo super partes, non apolitico, ma garante di tutti, dell’unità e dell’esistenza di un governo, salvo scioglimento? Meglio lasciare le elezioni sfasate correndo il rischio di una “cohabitation” conflittuale!

    Il vero problema non è l’elezione e la funzione del PdR, ma quelle del Parlamento. A 14 mesi dalle prossime elezioni non sappiamo con quale legge eleggeremo i prossimi rappresentanti supremi, meno numerosi, ma sempre divisi in due rami, ormai uniformati. Sappiamo che sono i parlamentari, sostanzialmente nominati da pochi privilegiati di cui alcuni sono senza mandato elettivo o colpiti di gravi condanne o accuse penali, che decederanno poco dopo la scadenza del loro incarico come saranno rinnovati. E questo sarebbe democrazia? La mia proposta fondata su un’analisi fuori dagli schemi comuni è sul tavolo. Non sarà colpa mia, se si finisce nel baratro.

    Forse il PdR è l’istituzione più valida della costituzione repubblicana, almeno in concreto, come istituzione vissuta. L’elezione indiretta e a tempi sfasati rispetto al calendario delle elezioni politiche è a mio parere una ragione del prestigio e dell’autorevolezza dell’istituzione che funziona proprio a condizione di non politicizzarla inutilmente.

    Chiuderei con un’altra domanda, anche se sono ormai stanco di ripetere sempre le stesse cose: e se si utilizzasse alcuni elementi della presidenza della Repubblica per comporre, eleggere e ridefinire il ruolo del Senato, non più seconda camera, ma organo consultivo che di iniziativa propria esprime pareri non vincolanti su qualsiasi proposta di atto legislativo o regolamentare con il potere della sola autorevolezza, salvo veto sospensivo da definire? Una cosa è sicura: il Senato com’è è superfluo.

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  2. Buongiorno al Professore Roberto Bin ai suoi collaboratori ed a Tutti i Frequentatori di questi luoghi.
    Con l’umile atteggio che ogni parola sapientemente dosata nella Costituzione Italiana Originale esige vorrei far notare come i Saggi Padri Costituenti all’art.85C., pochi giorni prima della definitiva approvazione, abbiano anteposto alla parola Presidente l’aggettivazione “nuovo”.
    Aggettivazione lapidaria ed esclusiva d’ogn’altro significato a conferma, in elegante estrema sintesi, di quanto statuito sul tema nelle commissioni per la Costituzione; particolarmente significativo in proposito l’inciso del Presidente Terracini Umberto, sin dalle principianti istanze, in risposta alle perorazioni dell’On. Rossi Paolo : “nella formula che è stata approvata…è implicito il criterio che NON possa essere MAI rieletto”.
    La parte finale dello stesso art.85C. chiarisce poi che solo nei casi eccezionali ivi descritti può, e solo brevemente, dilatarsi il mandato Personale Unico e Settennale che, in tale contesto eccezionale, assumerebbe i contorni d’ordine di servizio.
    Quanto ai “movimenti osmotici” ad intralegislatura, e cosi ben dettagliati dal Professore Salvatore Curreri, essi m’appaiono, e per le neoformazioni in particolare, ancorachè consolidata usanza, NON conformi al vaglio dettato all’art.49C. cvi devono necessariamente sottoporsi anzitutte le neopartizioni elettorali.
    Saluti e cordialità, enzo Bargellini Santarcangelo della Romagna 29 gennaio 2022.

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  3. A un mese di distanza rileggo l’articolo del prof Bin e il mio commento che ribadisco tale quale. Essendo i punti trattati importanti e di grande attualità mi permetto di tornarci brevemente.

    Quanto alla L elettorale l’alternativa suprema non è fra maggioritario (uninominale o premio?) e proporzionale (nazionale, di circoscrizione, soglie, candidati o liste, aperte o bloccate), ma fra sistema aperto (competitivo, deciso dagli elettori) e sistema chiuso (oligarchie partitiche). La differenza fra un uninominale a doppio turno o a voto singolo trasferibile e un proporzionale a voto singolo trasferibile o a voto unico di candidato che vale anche per la lista è solo una maggiore frammentazione politica che, spinta in extremis, si annulla. Il compromesso fra i due estremi sono piccole circoscrizioni uniformi. Il modello senza liste è l’Irlanda (1922), con liste aperte e voto unico, la Finlandia (1955). Sono modelli meno conosciuti, ma mille volte superiori (in conformità semplicità e efficienza) al sistema tedesco spesso invocato bensì complesso, instabile, incoerente e contestato.

    Giustamente molti osservatori esperti non faziosi insistono anche sulla necessità di riforme costituzionali. Per rimanere nel modello parlamentare del 1947 una prima revisione più facile dovrebbe essere l’introduzione della sfiducia costruttiva. Una riforma più difficile ma rivendicata da molti è il superamento del bicameralismo. La soluzione più razionale è quella radicale, la soppressione della seconda camera. Questo non significa necessariamente rinunciare al Senato. Ispirandomi dai modelli irlandese (Senead Eireann) e lussemburghese (Conseil d’État), entrambi imperfetti (in particolare dal punto di vista della composizione) ma molto interessanti e con un track record estremamente positivo, suggerisco da tempo di trasformare il Senato da seconda camera in organo solo consultivo. Un giovane accademico, Paolo Bonini, della Sapienza, sembra orientarsi in direzione del modello irlandese suggerendo un Senato “rappresentativo delle autonomie locali e accademiche”, senza precisare né le funzioni del nuovo Senato né le modalità di elezione dei nuovi senatori. Trovo l’idea promettente ma troppo vaga e un po’ confusionale.

    La debolezza del Parlamento è in gran parte riconducibile al profilo dell’ “eletto” medio lamentato da più parti. È però estremamente difficile alzare con metodo democratico il livello culturale dei singoli rappresentanti; non rimane che lo strumento democratico per eccellenza: la competizione individuale, libera, equa, aperta, purtroppo soppressa dal 2005, se non per i leader e le liste. Bisogna quindi riaffermare l’elezione diretta dei parlamentari attraverso un voto individuale. Ma questo probabilmente non basterà per assicurare una produzione legislativa più coerente, più razionale, più comprensibile, più efficiente.

    È proprio questo il ruolo del Conseil d’État lussemburghese: senza poteri decisionali (a parte un veto sospensivo) può esprimere pareri in tutte le materie legislative; i pareri accompagnati da spiegazioni più o meno articolate propongono di solito delle formulazioni alternative o a volte consigliano il ritiro completo della proposta. La Camera dei deputati rimane libera di seguire o meno, assumendo però una responsabilità ben maggiore in caso di scostamento dal parere dell’organo consultivo.

    Il punto debole del Conseil d’État è la composizione e la selezione dei consiglieri da parte della Camera, una procedura poco trasparente (lamentata anche dal Consiglio d’Europa), quindi senza garanzie, ma ciò nonostante da 100 anni piuttosto soddisfacente. La composizione del Senead Éireann eletto da alcuni gruppi sociali è più trasparente, ma anche più discutibile.

    Per un Senato consultivo italiano bisognerebbe rinunciare all’idea incoerente della rappresentanza delle autonomie locali, già rappresentate e tutelate diversamente. Peggiore perché poco democratica l’ipotesi di far designare i componenti dell’organo consultivo e a funzione epistemica dal mondo universitario. La soluzione più appropriata è di tutta evidenza un’elezione dai deputati fra persone particolarmente qualificate, un requisito che occorre lasciare generico sa valutare di volta in volta dai deputati. Concretamente i senatori dovrebbero essere almeno in parte esperti di diritto pubblico o di altre specialità e politici di lungo corso. Sarebbero eletti ogni anno per una frazione che dipende dalla durata del mandato, un sesto per sei anni rinnovabili o un nono per nove non rinnovabili. Avrebbero un loro staff, che dirigerebbero però senza farsi dirigere da loro come di tutta evidenza accade oggi per la maggior parte dei parlamentari.

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