Il mercimonio dell’attività parlamentare è insindacabile dal giudice?

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di Salvatore Curreri

Lo scandalo che ha colpito il Parlamento europeo, con l’arresto in flagranza della sua vicepresidente, pone tra gli altri il problema della sindacabilità delle sue opinioni in difesa del Qatar perché, come sembra, frutto di una precedente attività delittuosa. Si tratta, cioè, di chiedersi se i reati antecedenti all’attività parlamentare, epperò strumentalmente connessi ad essa in modo inscindibile, come nel caso della corruzione, siano coperti dalla prerogativa parlamentare della insindacabilità.

Questione, com’è evidente, che induce a riflettere, sotto un punto di vista del tutto particolare, sul tema della rappresentanza politica del parlamentare e del suo rapporto con la rappresentanza di interessi.

Questione non nuova, se è vero che già il 31 gennaio 1893 la Camera dei deputati concesse l’autorizzazione a procedere contro il deputato De Zerbi, imputato di peculato, corruzione millantato credito per avere ricevuto somme offerte in cambio della sua interferenza nell’iter di approvazione di un disegno di legge che ad una banca interessava vedere approvato (cfr. Atti parlamentari, Camera, legislatura XVIII, I sessione, 1892-1893, doc.  n. 128 id., tornata del 3 febbraio 1893, 1102 ss.).

Il tema si è riproposto nelle Camere repubblicane, dove si è registrato nel tempo un significativo mutamento d’indirizzo.

Inizialmente, infatti, la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, chiamata a pronunciarsi sulla insindacabilità ex art. 68 Cost. di un’attività delittuosa connessa all’esercizio di un atto tipico della funzione parlamentare (si trattava dell’accettazione di una promessa di denaro per presentare e sostenere due disegni di legge da parte di un deputato per questo accusato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p.), concluse che tale prerogativa comprendesse ogni attività parlamentare per il solo fatto di essere stata posta, a prescindere dagli intenti soggettivi, nonché quella antecedente rispetto ad essa inscindibilmente collegata e strumentale. Se così non fosse, concluse la Giunta, il giudice avrebbe potuto sindacare l’attività politica del parlamentare, e precisamente il processo di formazione della sua volontà, vanificando in tal modo la prerogativa dell’insindacabilità nelle sue motivazioni. Di qui l’inapplicabilità ai parlamentari ed ai loro atti tipici delle disposizioni del codice penale riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali, a partire giustappunto dal reato di “atto contrario ai doveri d’ufficio”. Sulla base di tali premesse la Giunta, presieduta dall’on. Vassalli, formulò una proposta di non accoglimento della richiesta di autorizzazione a procedere (24 marzo 1971, accettata il giorno dopo dalla Camera.

In questo modo, quindi, si volle evitare un controllo esterno sulla volontà del deputato, a costo però di rendere possibile il mercimonio dell’attività parlamentare. Per evitare però tale indesiderato epilogo, l’indirizzo della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera mutò in seguito radicalmente.

Così, nella sua relazione del 31 ottobre 1972, la Giunta, dopo aver preliminarmente contestato che potesse qualificarsi come “utilità” o “interesse privato” il vantaggio che il parlamentare intendeva conseguire dallo svolgimento della sua attività quando rientrante nel programma politico-elettorale del suo partito, ritenne che tale esimente dovesse non essere astrattamente e intrinsecamente presupposta ma verificata nei fatti. Pertanto, andava esclusa l’estensione della prerogativa parlamentare della insindacabilità all’accettazione di denaro o di altri beni materiali o alla loro relativa promessa in grado di interferire e/o condizionare il compimento di un atto tipicamente parlamentare. È vero che la proposta della Giunta di concedere l’autorizzazione a procedere fu respinta dall’Aula (seduta del 9 ottobre 1975) ma è pur vero che nella delibera non si fece cenno all’applicazione della prerogativa della insindacabilità ex art. 68.1 Cost.

La stessa Corte costituzionale, nella sua sentenza n. 81/1975 del 27 marzo, ha collegato la irresponsabilità dei parlamentari al “fine di rendere pienamente libere le discussioni che si svolgono nelle Camere, per il soddisfacimento del superiore interesse pubblico connessovi”. È in vista di questo fine che “siffatte eccezionali deroghe all’attuazione della funzione giurisdizionale, considerate necessarie a salvaguardia dell’esercizio delle funzioni sovrane spettanti al Parlamento, risultano legittime in quanto sancite dalla Costituzione”.

La prerogativa dell’insindacabilità è dunque funzionalmente connessa alla rappresentanza “nazionale” del singolo parlamentare, chiamato ad esercitare le sue funzioni “senza vincolo di mandato”. Pertanto essa non può coprire quanto non strumentalmente funzionalizzato al corretto esercizio del mandato parlamentare ed al corretto funzionamento dell’istituzione parlamentare nel suo complesso.

 Ciò giustifica quindi l’applicazione anche al parlamentare del reato di “corruzione per l’esercizio della funzione”, previsto dall’art. 318 c.p., come riformato dalla legge n. 190/2012 (c.d. Severino), che punisce con la reclusione da tre a otto anni “il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”. Tale reato fu applicato nei confronti dell’ex deputato dell’UDC Luca Volontè, accusato di aver ricevuto da politici azeri una tangente di 2 milioni e 390 mila euro per orientare il proprio voto come membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

In quell’occasione, infatti, la Cassazione (sentenza n. 36769/2017) accolse il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del giudice per l’udienza preliminare di non procedere nei confronti del suddetto deputato perché riteneva insindacabili le sue attività. Per la Cassazione, infatti, la garanzia della insindacabilità a tutela dell’autodeterminazione del singolo parlamentare ne copre gli atti tipici o anche non tipici purché connessi alla funzione parlamentare. Altrimenti prevale la “grande regola” dello stato di diritto e la parola deve passare alla giurisdizione. L’utilità percepita, infatti, va qualificata “indebita” quando l’attività parlamentare, che per sua natura tende alla costante composizione di interessi di parte, viene condizionata da interessi estranei alla sua natura politica. Per questo, nell’ambito dell’attività politico-parlamentare “non può ritenersi rientrare la ricezione di utilità, anche estremamente rilevante, come ad esempio cospicue somme di denaro a titolo personale”.

In conclusione, quanto accaduto nel Parlamento europeo ci richiama ancora una volta in modo esigente alla nobiltà della funzione parlamentare, marcando il confine oltre cui si è fuori dai compiti di rappresentanza e anche di “compromesso” politico e si entra nella logica di uno sfruttamento privato dell’altissimo ufficio ricoperto.

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1 commento su “Il mercimonio dell’attività parlamentare è insindacabile dal giudice?”

  1. Buongiorno al Direttore a Tutta la Redazione ed ai Frequentatori di questo luogo, nel formularVi auguri per le festività prossime colgo l’occasione per un breve commento all’articolo del Professore limitatamente alla parola “mercimonio” del titolo…e le due ad esso correlate incise nella Costituzione d’Italia (e non solo) in origine indubbiamente fra le migliori di questo pianeta…“DISCIPLINA ed ONORE” in intima congiunzione.
    Orbene; del Regno Animale l’umana specie m’appare l’unica che ha fatto mercatura persino dell’attrezzatura riproduttiva…dunqve…disciplina ed onore fu investimento piuttosto azzardato come dimostratosi nei fatti i Italia, Europa… facendo salve le dovute eccezioni naturalmente.
    Nei contesti di guerre, attuali e pregresse per croniche faccende di dominio con armamenti forniti dai più mi sovvengono inascoltate a questo tempo le parole dell’Onorevole ing. Ugo Damiani severamente pronunciate nella discussione generale sul progetto Costituente (8 marzo 1947).
    Cordialità, Enzo Bargellini.

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