Emergenza climatica e «forza biofisica» dei precedenti giudiziali di condanna degli Stati

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di Ines Bruno

Com’è noto, l’emergenza climatica è una situazione di fatto catastrofale contraddistinta da tre elementi: è degenerativa nel tempo (per questo è denominata “bad-to-worst scenario”), immanente (in quanto condizionante tutte le sfere del sistema climatico, inclusa la biosfera umana) e ubiqua (ossia presente ovunque come tempo e come spazio) (cfr. il periodicamente aggiornato World Scientists’ Warning of a Climate Emergency). Questo significa che ogni singolo individuo è sottoposto passivamente e negativamente ad essa. L’Unione europea ha sintetizzato il concetto, in più sedi, con la formula “minaccia esistenziale” per il genere umano (cfr. M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente, 2022).

L’emergenza climatica, quindi, non coincide con il solo cambiamento climatico, né può essere ridotta a quest’ultimo (sulla qualificazione di queste riduzioni concettuali come falsità morali, purtroppo assai diffuse nell’opinione pubblica, si v. S. Levantesi, I bugiardi del clima, 2021). Sarebbe come confondere un processo con il contesto in cui esso avviene. Infatti, tra cambiamento climatico ed emergenza climatica sussiste la stessa differenza che si riscontra fra un rubinetto d’acqua e una vasca debordante in cui l’acqua continua ad essere riversata (la metafora si deve a Bill McKibben): il getto d’acqua dal rubinetto indica un processo immissivo continuativo; la vasca, invece, identifica la situazione di contesto in crescente e irreversibile trasformazione. L’emergenza climatica è quest’ultima: una vasca ormai traboccante, dentro la quale tutti noi stiamo annaspando o annegando. La posta in gioco, pertanto, non è più quella di “governare” il getto d’acqua, come se la vasca potesse ancora riempirsi; bensì quella di chiudere necessariamente e al più presto il rubinetto, al fine di scongiurare il peggio tra chi annaspa e annega.

La distinzione è fondamentale, oltre che sul piano empirico, anche dal punto di vista giuridico. Un conto, infatti, è discutere di “governo” del getto d’acqua (fuor di metafora: di governo del cambiamento climatico): su un processo ancora possibile, c’è sempre margine di manovra con discrezionalità su tempi e modi. Un altro conto, però, è “chiudere” necessariamente e rapidamente il rubinetto (fuor di metafora: bloccare la degenerazione dell’emergenza climatica in corso): in una simile situazione, il margine di manovra (discrezionalità) è quasi nullo, in quanto più velocemente si agirà in un solo senso (chiudere), meglio sarà per tutti.

Sembra, alla luce dell’autorevole dottrina sulla non regressione ambientale (elaborata da M. Prieur), che, con l’emergenza climatica, entri in gioco questa seconda opzione, tra l’altro legittimata dalle condotte materiali più stringenti indicate nei principi 8 e 18 della Dichiarazione di Rio del 1992: «eliminare i modi di produzione e consumo non sostenibili» (principio 8) e «comunicare» fra Stati la «situazione di emergenza suscettibile di produrre effetti nocivi imprevisti sull’ambiente» (principio 18); con l’aggravante, tra l’altro, che gli «effetti nocivi» sono ormai quasi tutti prevedibili e prevenibili (come si legge nell’ultimo Rapporto di Valutazione dell’IPCC, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici: AR6 2021-2022).

Il nuovo scenario è destinato ad avere insolite ricadute sui contenziosi climatici verso gli Stati, ormai sparsi per il mondo, incluse Europa e Italia.

Infatti, dato che l’emergenza climatica è catastrofale “bad-to-worst”, immanente e ubiqua, nella contestuale constatazione che ogni singolo individuo è sottoposto passivamente e negativamente ad essa, c’è da chiedersi: che cosa succede allorquando un contenzioso climatico si conclude con la condanna dello Stato ad agire per contrastare tale emergenza? Si genera una sorta di giudicato implicito esterno verso tutti gli altri contenziosi climatici che chiamano a responsabilità altri Stati sulla medesima emergenza? Si può così prefigurare una nuova tipologia di precedenti giurisprudenziali? Il tema dei precedenti ovviamente non è nuovo (si v. il panorama curato da M. Cavino e A.S. Bruno, Esperienze di diritto vivente, 2 voll.). è nuovo quello che l’interrogativo ci impone di considerare: il dato di fatto comune ai vari contenziosi di condanna degli Stati ovvero la degenerazione del cambiamento climatico in emergenza.

Basta leggere alcuni casi paradigmatici, per averne sollecitata l’ipotesi (se ne prende spunto dalla banca dati del Sabin Center della Columbia University).

Restando in Europa, non si possono non citare il famosissimo giudizio Urgenda c. Paesi Bassi (2015-2019), dove la Corte Suprema olandese ha condannato definitivamente lo Stato a ridurre le sue emissioni di gas serra, riconoscendo che lo stesso contribuisce a inasprire il cambiamento climatico e a minacciare e ledere il diritto alla vita, nonché gli analoghi casi, sempre di condanna dello Stato, Friends of the Irish Environment c. Irlanda (2020), Klimaatzaak c. Belgio (2021), Notre Affaire à Tous c. Francia (2021), Grande-Synthe c. Francia (2021), Klimaticka žaloba ČR v. Repubblica Ceca (2022), cui aggiungere l’altrettanto celebre Neubauer et al. c. Germania (2021), dove la Corte costituzionale tedesca parla esplicitamente di situazione «di proporzioni catastrofiche o addirittura apocalittiche» (katastrophalen oder gar apokalyptischen Ausmaßes) che spetta agli Stati fermare nella deriva solo peggiorativa. Fuori dell’Europa, la condanna dello Stato in Generazioni Future c. Colombia (2018) si fonda sulla considerazione che solo lo Stato, detentore della sovranità territoriale sulle risorse naturali, può controllare il non aggravamento del cambiamento climatico, mentre, nel giudizio Shrestha c. Nepal (2018), la condanna muove da argomenti simili a quelli olandesi di Urgenda.

Se ne potrebbero citare altri, anche perché, come risulta dai repertori giurisprudenziali esistenti (in particolare il cit. Sabin Center e la banca dati AIDA), le condanne dello Stato ad agire sul problema climatico sono in costante aumento e hanno superato quelle di rigetto.

Questi “precedenti” ci dicono che uno Stato è giudizialmente condannabile ad agire sia sul processo di cambiamento climatico, dove – come accennato – i margini di discrezionalità sono più ampi, sia sulla situazione «di proporzioni catastrofiche o addirittura apocalittiche». Con la differenza, che la situazione «di proporzioni catastrofiche o addirittura apocalittiche» è l’emergenza climatica, che risiede ovunque e riguarda tutti gli Stati e tutti gli esseri umani.

Sarà, allora, mai possibile distinguere la condizione di responsabilità degli Stati al cospetto di questo comune denominatore di fatto? Com’è noto, sono i fatti dedotti in giudizio a declinare la distinzione o meno nel richiamo ai precedenti. Per esempio, nella tradizione di Common Law, si parla di restrictive distinguishing, se il fatto precedente è semplicemente diverso, genuine distinguishing, se emerge illogicità manifesta nell’utilizzarlo, plainly inreasonable distinguishing, se il richiamo ad esso produce conseguenze pratiche irragionevoli (cfr. Learning How to Distinguish Cases, 2014).

Ora, nell’emergenza climatica, il “fatto” è sempre e solo uno: peggiorativo nel tempo, immanente, ubiquo e riguardante tutti. Il dato è innegabile e inconfutabile, sicché è questo vincolo biofisico a conferire “forza” ai precedenti di condanna degli Stati.

Parafrasando il celebre lessico costituzionale italiano, si potrebbe parlare di “rime obbligate biofisiche” (sul tema delle “rime obbligate”, si v., in sintesi, D. Martire, Giurisprudenza costituzionale e rime obbligate, 2020), dove i punti di riferimento della “rima” risiedono proprio nel carattere biofisico della situazione di emergenza climatica.

Non sembrano intraversi alternative a questo esito logico ed empirico, a livello sia internazionale che europeo e nazionale.

A livello internazionale, un giudice statale, che sentenziasse di ignorare i precedenti di condanna, concorrerebbe ad attivare lesioni extraterritoriali dei diritti, altrove tutelati grazie appunto alla condanna, e violazione del principio di diritto internazionale di buona fede sul “No Harm” (sui risvolti extraterritoriali della tutela dei diritti nella situazione di emergenza, si v. C. Gentile, Climate litigation ed extraterritorialità dei diritti, 2023).

A livello europeo, un giudice statale, che assumesse la medesima decisione, consumerebbe una disparità di trattamento tra cittadini dell’Unione europea di fronte a una situazione di fatto identica (l’emergenza climatica, per di più riconosciuta e dichiarata ufficialmente dalla UE) e per una materia concorrente tra UE e Stati (la lotta al cambiamento climatico ex art. 191 TFUE).

A livello nazionale, si potrebbe approdare persino alla nullità di una sentenza del genere, alla luce di quanto recentemente puntualizzato dalla Corte di cassazione civile, con la decisione n. 27411 dell’8/10/2021, in tema di “anomalie motivazionali” rispetto ai fatti allegati e alle conseguenze logiche con essi compatibili.

Ex facto oritur ius, a maggior ragione quando il fatto ci riguarda tutti; anche perché i precedenti di condanna degli Stati sull’emergenza climatica sono pur sempre una forma di «comunicare» fra Stati la «situazione di emergenza suscettibile di produrre effetti nocivi imprevisti sull’ambiente» (principio 18 di Rio 1992). Servono a impedire l’altrimenti inevitabile e irreversibile regressione.

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