Magistrati e politica: un equilibrio quasi impossibile

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di Salvatore Curreri

Per la Corte costituzionale (sentenza n. 170/2018)  i magistrati, anche in aspettativa, non possono iscriversi ad un partito politico perché ciò lede la loro imparzialità e indipendenza. Però possono ricoprire cariche elettive, politiche e tecniche e ritornare, al loro termine, in magistratura.

Uno dei profili più discussi del, per così dire, problematico e singolare rapporto nel nostro paese tra politica e giustizia riguarda le regole che disciplinano l’ingresso dei magistrati in politica, nel duplice aspetto dell’assunzione di cariche pubbliche, elettive e no, e della loro militanza partitica.

Oggi, in forza del diritto di tutti i cittadini di accedere “agli uffici pubblici e alle cariche elettive secondo i requisiti stabiliti dalla legge” (art. 51 Cost.), i magistrati (tranne quelli delle giurisdizioni superiori) possono candidarsi alle elezioni politiche nazionali ed europee. Se però vogliono presentarsi nella circoscrizione in cui hanno svolto le proprie funzioni devono, a pena d’ineleggibilità, dimettersi almeno sei mesi prima delle elezioni. Se invece vogliono candidarsi altrove oppure assumere cariche politiche non elettive (ad es. ministro, assessore regionale o comunale), devono mettersi in aspettativa. Se non eletti, non possono per cinque anni ritornare a svolgere le loro funzioni nella circoscrizione dove si sono candidati (art. 8 DPR n. 361/1957). Fu per questo motivo, infatti, che l’ex p.m. Ingroia, dopo non essere stato eletto, fu inevitabilmente destinato alla Procura di Aosta, unico collegio in cui non si era candidato.

Di contro, ai magistrati è vietata, perché illecito disciplinare, “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici” (art. 3.1.h) d.lgs. 109/2006 come modificato nella parte in corsivo dall’art. 1.3 lett. d) n. 2 l. 269/2006). Ciò in attuazione dell’art. 98.3 Cost. secondo cui “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati…”. Infatti, “l’estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l’indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica” (C. cost. 224/2009, 2; Cass., s.u. civ. 27987/2013; Csm, sez. disc. 15/2014).

Quindi, in base alla disciplina vigente, i magistrati possono assumere cariche politiche, elettive e no, ma non possono né iscriversi ad un partito politico, né, anche da non iscritti, partecipare alla sua vita politica interna, se non in modo occasionale.

È proprio sulla pretesa irragionevole contraddittorietà di tale disciplina che si è appuntata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla sezione disciplinare del Csm e ora respinta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 170/2018. Questione sollevata (tardivamente) a proposito della posizione di Michele Emiliano (da tempo fuori del ruolo organico della magistratura perché collocato in aspettativa per motivi politici in quanto prima Sindaco di Bari e ora Presidente della Regione Puglia), perché iscrittosi al Partito Democratico per poter partecipare alle primarie indette per l’elezione del suo segretario.

La Corte costituzionale ha respinto l’eccezione d’incostituzionalità sostanzialmente per tre motivi:

a) il diritto dei magistrati, al pari di ogni altro cittadino, di partecipare alla vita politica, esercitando il diritto di riunione, associazione ed espressione incontra i limiti giustificati “sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità” (art. 101.2, 104.1 e 108.2 Cost.); a tal fine, l’art. 98.3 Cost. demanda al legislatore la possibilità di stabilire “limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati” (4° cons. dir.);

b) in questo quadro, l’attuale divieto d’iscrizione al partito politico deve valere per tutti i magistrati, sia quelli in servizio che in aspettativa, qualunque sia il motivo di quest’ultima: una carica elettiva; un incarico politico (v. supra); un compito di natura tecnica (ad esempio, una consulenza parlamentare). In qualunque posizione si trovi, il magistrato iscritto ad un partito o che (e per la Corte è equivalente) partecipa, anche da non iscritto, in via sistematica e continuativa alle sua attività, induce i cittadini a dubitare fondatamente della sua indipendenza ed imparzialità; ciò tanto più in vista del suo futuro rientro nei ruoli della magistratura se non eletto oppure al termine del mandato elettivo o dell’incarico politico;

c) di conseguenza, il magistrato può concorrere alle cariche elettive o assumere cariche politiche senza però potersi iscrivere ad un partito oppure prendere parte alla sua attività politica con modalità tali che la sezione disciplinare del Csm giudichi sistematiche e continuative.

Conoscendo la consolidata e apprezzata sensibilità sul tema del giudice relatore e redattore, non sorprende che la Corte, dopo essere pervenuta a tali conclusioni, si sia sentita subito in dovere di precisare di non ignorare affatto il ruolo fondamentale dei partiti politici ai fini della rappresentanza politica – che “nella Costituzione repubblicana, è in principio rappresentanza attraverso i partiti politici” – nonché il loro essere protagonisti nel procedimento elettorale, fino al punto da ammettere, senza riserve, che è di fatto impossibile, anche per un magistrato autorevole e famoso (!), essere eletto “da solo”, senza essere candidato e/o sostenuto, anche nell’esercizio della carica, da un partito politico (cfr. 6° cons. dir.).

Eppure, nonostante tali excusatio, è difficile scacciare l’impressione che la Corte, in scia ad indirizzo giurisprudenziale che confina il ruolo dei partiti sul piano sociale ed elettorale, sia caduta in un fragile formalismo allorquando, separando aspetti di fatto strettamente collegati, ritiene che ad infrangere l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura sia l’iscrizione ad un partito e non il ricoprire la carica politica o elettiva per la quale lo stesso partito l’ha designato o candidato. È difficile, sinceramente, ritenere ragionevole che il magistrato perda la propria aurea d’indipendenza ed imparzialità quando s’iscrive ad un partito e non quando assume un incarico elettivo politico grazie al sostegno del partito medesimo. Si direbbe, quasi, che alla base di tale distinzione vi sia l’idea per cui l’iscrizione o la partecipazione sistematica al partito, in quanto soggetto per sua natura inevitabilmente di parte, infranga in modo inevitabile e irreparabile con l’imparzialità alla quale il magistrato, nel proprio comportamento, è tenuto, mentre ciò non accade con l’assunzione e lo svolgimento di cariche elettive ed istituzionali perché al servizio di tutti (la “rappresentanza nazionale” di cui all’art. 67 Cost.).

In tal senso, “l’uscita di sicurezza” indicata dalla Corte – fare campagna elettorale o esercitare il proprio incarico politico senza assumere vincoli con il partito che possano offuscare l’immagine del magistrato presso l’opinione pubblica – è così stretta e, ci si consenta, un po’ ipocrita da costringere ad esercizi di non facile equilibrismo sia lo stesso magistrato, sia la stessa sezione disciplinare del Csm, la quale avrà il non facile compito di valutare con prudenza se egli, nel caso specifico, abbia legittimamente “incontrato” la vita di un partito oppure se vi abbia partecipato in misura così sistematica e continuativa da meritare la sanzione disciplinare.

Tale impostazione trova il suo punto di caduta nella possibilità del magistrato, una volta conclusa la sua esperienza politica, di rientrare in servizio (art. 50 d.lgs. 160/2006). Perché pare evidente che, anche se non iscritto o non abbia partecipato in via sistematica all’attività di partito, il magistrato che vuole ritornare a svolgere le sue funzioni, qualunque sia la sua sede di assegnazione, sarà sempre e comunque segnato politicamente dalla carica elettiva o politica ricoperta.

Su questo punto la Corte ben avrebbe potuto spendere qualche parola in più, rivolgendo un monito al legislatore perché il percorso dalla magistratura alla politica sia di “sola andata”, così come prevedono quelle proposte secondo cui il magistrato, al termine dell’incarico elettivo o politico, andrebbe d’ufficio assegnato all’Avvocatura o al Consiglio di Stato (v. in tal senso le dichiarazioni rilasciate dal Ministro della Giustizia al Csm). In tal senso, del resto, si era pronunciato il rapporto del Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), organo consultivo del Consiglio d’Europa, il 21 ottobre 2016.

In conclusione, la tutela della indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, così come ha portato la Corte costituzionale a tenere fermo il divieto d’iscrizione e di partecipazione sistematica e continuativa alla vita dei partiti dei magistrati anche già in aspettativa, dovrebbe impedire loro, se non di assumere cariche elettive o politiche, quantomeno di poter al loro termine ritornare ad esercitare le funzioni, come se nulla fosse accaduto.

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