Contro la retorica delle ‘riforme’ epocali

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di Andrea Venanzoni

 A rilegger oggi le pagine di un agile librino di Ugo Mattei, apparso nel 2013 per i tipi di Einaudi, Contro riforme, alla luce dell’incombente referendum costituzionale settembrino, inopinatamente accorpato al voto regionale, verrebbe da dire che il ‘riformismo’ alla italiana si sta ormai avvitando in una crisi, accelerata e sempre meno meditata, che porta alla coazione a voler sfornare progetti, più o meno venduti alla opinione pubblica come epocali, senza pensare però di voler suscitare il men che minimo dibattito nella opinione pubblica.

Il feticismo riformista che involge tanto i singoli settori legislativi, quanto l’azione e l’organizzazione amministrative, non riesce più a risparmiare nemmeno la Costituzione, tirata metaforicamente per la giacchetta poiché ciascuno sembra desideroso di mettervi sopra il proprio timbro, a colpi di maggioranza, in spregio alla ratio vitale di un patto costituzionale.

Almeno, nella passata e tutto sommata recente ipotesi di riforma costituzionale respinta in sede referendaria nel dicembre 2016, non vi furono solo statici input dati in pasto alla opinione pubblica ma si registrò un certo dibattito, informato, interessato, vivo, che oscillava dai mezzi di stampa agli incontri organizzati da associazioni, fondazioni, persino Chiese e oratori. Si formarono in quella occasione convincimenti, opinioni, ed era possibile riscontrare posizioni estremamente meditate e organiche tanto in un fronte quanto nell’altro.

Non mancò un certo grado di fideistico messianismo politico che rivestì, inopinatamente, l’intero impianto riformistico di una patina semi-plebiscitaria tesa a confermare o smentire non più la riforma quanto l’azione politica complessiva di chi quella riforma aveva proposto.

E se quello fu il limite evidente di quella tornata referendaria, lo stesso non impedì un certo grado di maturazione della opinione pubblica e della società civile. In quel caso la stessa scienza giuridica si divise su posizioni meno assolutizzanti e anche da un punto di vista prettamente quantitativo non era arduo imbattersi in costituzionalisti che caldeggiassero la riforma e in altri che la avversassero con pari intensità.

Nel caso attuale, quasi il nulla. Ne discutono i giuristi, in uno spazio in cui le ragioni del no sono prevalenti per motivazioni auto-evidenti, ma la società civile è cristallizzata in un silenzio che rende il voto stesso una sorta di curiosa parentesi incistata, quasi per caso, nel fianco del vero voto che sta animando il dibattito politico contemporaneo, il voto regionale.

Ed è piuttosto paradossale, ma segno dei tempi, che il voto regionale sia, nel dibattito pubblico, ormai assurto a forma di validazione o di sconfessione delle politiche attuate dal Governo, mentre la riforma costituzionale se ne rimane in un cantuccio, in penombra.

A dire il vero, la liquefazione delle dinamiche parlamentari e il significativo detour delle fonti del diritto importati entrambi dalla crisi pandemica, con una iper-centralizzazione della azione governativa nelle mani del solo Presidente del Consiglio, importa una considerazione più che preoccupante del significato non solo simbolico, ma anche strettamente sostanziale, della ‘riforma’, e di una sua certa aura punitiva nei confronti del momento parlamentare,  non visto e considerato più solo come inefficace, tortuoso, lento ma anche come eccedente rispetto alle presunte, ‘vere’ istanze del popolo.

Sulla rappresentanza parlamentare giudicata con fastidio dai sostenitori della ‘democrazia diretta’ più o meno digitale vi sono pochi dubbi, come ha giustamente rilevato Francesco Contini nel suo intervento del 22 Agosto e come si sostiene nel documento a favore del no firmato ad oggi da 183 costituzionalisti: basterebbe considerare le parole utilizzate per sostenere la riforma, tutte mirate al disvalore, alla sfiducia nei confronti del parlamentare, considerato come un soggetto da sottoporre a penetrante controllo dal ‘popolo’ per comprendere come la logica punitiva non sia un abbaglio ermeneutico, ma un dato di fatto.

L’agghiacciante espressione taglio delle poltrone, figlia di un giacobinismo digitale senza la caratura culturale del giacobinismo, i rimandi ai presunti risparmi epocali di spesa, corrispondenti in realtà al valore di un caffè (cito il medesimo esempio che gli attuali sostenitori politici del si utilizzavano quando erano impegnati a caldeggiare il no alla riforma Renzi-Boschi, asserendo all’epoca che la Costituzione non si svende per un caffè) finiscono per obliare le risultanti più patenti di una ‘riforma’ del genere; balcanizzazione frammentaria della rappresentanza parlamentare su base territoriale, asimmetrie interne ai lavori parlamentari, Commissioni comprese, eccesso di saturazione dei problemi tipologici del bicameralismo perfetto.

In un incredibile volantino a sostegno delle ragioni del si ideato da una deputata del principale partito sostenitore della riforma, e more solito diffuso sui social, si legge “ogni parlamentare rappresenterà un maggior numero di elettori e quindi sarà molto più visibile e di conseguenza più responsabile e controllabile”.

L’ansia contro-democratica, per dirla alla Rosanvallon, non è di certo, senza regole chiare, il miglior viatico per proporre riforme tese alla sorveglianza continua del parlamentare. E soprattutto in tema di rappresentanza, sposando quel genere di logica potremmo anche sostenere che al fine di massimizzare davvero questa funzione di maggiore rappresentanza e di potenziale maggior responsabilizzazione degli eletti, i parlamentari potrebbero anche essere ridotti a uno solo. Oppure potrebbero essere direttamente sostituiti dal Presidente del Consiglio.

Il ‘politico’ come summa del disvalore, del disfacimento della volontà popolare, o generale, la rappresentanza stessa considerata come una macchina ornamentale inutile finiscono per riecheggiare quanto sosteneva a piena ragione Carl Schmitt, “il fatto di definire il nemico come politico e se stessi come non-politici (cioè come scientifici, giusti, obbiettivi, imparziali ecc.) costituisce proprio un modo tipico e particolarmente intensivo di far politica”.

La Costituzione in questa chiave di lettura non è più patto, progetto politico comune, ma spazio di potenziale aggressione e di ‘inimicizia’, strumento politico di una parte.

Il punto è che ad oggi molte delle ragioni del si, le ragioni serie intendo e non quelle da arena mediatica, sono forzosamente ricondotte a una dimensione puramente ipotetica. Valerio Onida ha ad esempio affermato che con il si le Camere potrebbero funzionare meglio. Il problema è che mettere mano alla Costituzione, per altro in un modo che per metodo e sostanza lascia molti dubbi, senza aver ridisegnato in maniera contestuale, organicamente e coerentemente,  l’architettura complessiva, a partire dalla legge elettorale, finisce per relegare gli effetti positivi al mero condizionale e al periodo ipotetico, mentre evidenzia per certe le storture che la ‘riforma’ importerà.

Anche ripercorrendo le motivazioni favorevoli alla ‘riforma’ espresse a partire dall’ottobre 2019 da Stefano Ceccanti si coglie la esigenza di una riforma più organica, coerente e razionale: non a caso lo stesso Ceccanti, in suo articolo apparso il 7 Ottobre 2019 sulle pagine de Il Foglio, collegava questa ‘riforma’ a un disegno istituzionale più ampio, stabilendo un parallelismo con la precedente riforma mancata, quella del 2016.

Il problema è che il disegno istituzionale più organico ad oggi non c’è e non se ne scorge la fisionomia lungo la linea d’orizzonte. Rimane, purtroppo, solo la retorica del taglio delle poltrone.

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