È bene fare il male? Sì, quando è necessario!  

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di Gladio Gemma

Partiamo da un’opinione comune: occorre fare il bene, cioè detto in termini quanto mai banali, compiere azioni utili per la soddisfazione delle esigenze altrui, oppure omettere comportamenti che possano provocare danni o sofferenza ad altri esseri umani. Questo imperativo di fare il bene, sia in positivo, sia i negativo, costituisce un’istanza etica condivisa (salvo da chi sia affetto da sadismo) ed ha una validità incontestabile, la quale non richiede giustificazione. Nel contempo esiste una seconda opinione comune di natura etica (e giuridica). In determinate circostanze si deve fare il male, cioè si debbono compiere una serie di azioni, che, in base alla regola generale dianzi esposta, sarebbero interdette. Gli esempi sono numerosi, ma mi limito a richiamarne due. Il primo è costituito da interventi dolorosi, di natura medica: il medico, in questi casi, provoca una sofferenza, pur giustificata dalla finalità terapeutica. L’altro esempio è costituito, per richiamarci ad ipotesi che interessano anche il diritto penale, dalla legittima difesa, cioè da casi in cui venga commesso un atto di violenza a vantaggio dell’autore e con sacrificio di altri.    
Stante quanto detto, si può affermare in prima battuta che sussistono una regola generale, costituita dal fare il bene, ed una regola derogatoria, in virtù della quale, a volte, è giocoforza, cioè è moralmente giustificato, anzi doveroso, fare il male. Ma tale regola derogatoria, a prima vista banale, è messa in discussione? Proprio sì! Vediamo quali fattori giochino a sfavore della stessa.
Per quanto riguarda il versante psicologico personale ci può essere una resistenza a compiere atti che, pur giustificati, arrechino danni o provochino sacrifici altrui. Ad esempio, se già la legittima difesa, con possibile ferimento o morte dell’offensore, può generare riluttanza dell’offeso a reagire, la violenza, perfino con esito letale, compiuta per stato di necessità (esempio, respingimento di alcuni naufraghi per evitare l’affondamento di una scialuppa con morte di tutti), è certamente motivo ancor più forte per indurre a non fare ciò che pur sarebbe lecito fare per salvare vite umane. Ma non è tanto il versante psicologico ed individuale che interessa in questa sede. Importa cogliere i fattori etico-sociali e culturali, che investono il modo di pensare di settori più o meno ampi della società. A tal fine richiamerò da un lato una bipartizione etica di fondo, che ha una ricaduta sulla liceità o meno del male, e, dall’altro lato, un atteggiamento mentale, anch’esso con ripercussioni su quanto si sta trattando.           
La bipartizione di etica si sostanzia nella distinzione, per riprendere le parole di un filosofo (Lecaldano), fra “etiche deontologiche e conseguenzialista”. Le etiche deontologiche ruotano “attorno a principi”, mentre le altre sono “teleologiche o rivolte principalmente alle conseguenze”. Tale bipartizione è riecheggiata dalla nota distinzione weberiana fra etica dell’intenzione, cioè quale soggezione a principi assoluti, incondizionati, avulsi dalla dinamica reale, ed etica della responsabilità, costituita da regole ed azioni mirate a risultati, i quali solo sono parametro di giudizio di comportamento umani. Per la prima il bene è costituito soltanto sull’osservanza di principi buoni, per la seconda il bene è costituito invece dal raggiungimento di risultati buoni. Detto con altre parole ancora, l’etica dell’intenzione si sostanzia nell’osservanza di principi che impongono solo comportamenti attivi od omissioni che non determinano danni o sofferenze altrui in nessun modo ed in nessuna circostanza (si può dire: “senza se, senza ma”), in quanto può “derivare solo bene dal bene” (per riportare le parole, che peraltro rappresentano il contrario del suo pensiero, di Weber). Secondo l’etica della responsabilità, invece, il valore morale delle azioni umane non è dato dalla natura (moralmente buona) delle azioni umane, bensì della qualità morale (e buona) degli effetti di dette azioni, le quali possono essere “cattive” nel senso di essere dannose ad altri e provocare sofferenze, ma produrre risultati positivi per tanti esseri umani e per la società. Per dirla con  l’espressione completa di Weber (corrispondente al suo pensiero), “non è vero che possa derivare solo bene dal bene, dal male solo male, ma piuttosto spesso il contrario”.    
Non sembra necessario spendere molte parole per dimostrare che l’etica deontologica e la specifica traduzione in etica dell’intenzione siano in antinomia con la concezione dell’utilità dell’agire male in certe situazioni e della necessità di derogare all’imperativo di non danneggiare e far soffrire mai altri. Mi limito solo a rilevare che, per ragioni psicologiche dianzi cennate e per influenza di impostazioni filosofiche (spesso di matrice religiosa), la concezione etica in oggetto è diffusa.
C’è, poi, un altro fattore culturale, di natura conoscitiva e valutativa più che etica, che ha rilevanza circa quanto si va dicendo. Si tratta di quel fenomeno, di quell’atteggiamento, denominato presentismo e sul quale non mancano alcuni scritti pregevoli (purtroppo, sia consentito il rammarico dello scrivente, ignorati). Più esattamente, tale atteggiamento si sostanzia nella percezione soprattutto della realtà immediata, vicina a noi (nello spazio e) nel tempo, e nella soluzione non solo dei problemi che sorgono nell’immediato, ma pure con l’attenzione ai soli effetti che si manifestano e si percepiscono nel brevissimo periodo. Sull’impatto del presentismo sulle vicende dell’attuale generazione e sui rapporti fra le generazioni attuali e future sussistono ottime analisi e riflessioni (come comprova un recente e denso libretto di De Rita e Galdo, intitolato “Prigionieri del presente”), le quali non hanno rilevanza in questa sede. Preme solo rilevare che l’assorbente interesse per gli effetti presenti, assai ravvicinati nel tempo, favorisce la propensione a fare il bene, in alternativa al male, oggi anche se gli effetti futuri delle azioni presenti sono poi assai negativi in confronto con u mancati benefici che si sarebbero potuti ottenere con i mancati comportamenti dell’oggi. Il presentismo, in altri termini, genera miopia di valutazioni inducendo a conferire ad individui oggi benefici assai inferiori ai danni e sacrifici futuri, con una visione quanto mai circoscritta al presente. Con una battuta, un mancato intervento operatorio evita ad un paziente un sacrificio oggi al prezzo di un ben maggiore sacrificio futuro.     
Chi scrive ritiene nettamente preferibile un’etica conseguenzialista e, di conseguenza, l’etica della responsabilità. Me ne guardo bene dall’entrare in un dibattito nel campo della filosofia morale e mi limito ad una motivazione concisa e rudimentale. Ritengo che il pensiero umano e la cultura (in senso lato del termine) non siano fini a se stessi e configurabili in base ad un arbitrio metafisico. Pensiero e cultura umani debbono avere una natura teleologica ed essere funzionali alla miglior realizzazione della qualità della vita degli esseri umani. Certo questa finalità è quanto mai vaga e generica, e si può anche operare una concretizzazione richiamando nozioni come felicità (intesa non solo in senso stretto, cioè edonistica), od altre. Rimangono, comunque, come scopo dei risultati costituenti l bene e della necessità di mezzi atti a realizzare detti risultati. Detto banalmente, non mi sembrano razionalmente plausibili canoni etici, quali rispetto della dignità altrui, divieto di sopprimere la vita altrui o di menomare l’integrità fisica di altri, senza la finalizzazione al mantenimento ed alla realizzazione di situazioni gradevoli per esseri umani. In questa prospettiva diventano rilevanti le circostanze ed i mezzi per realizzare al meglio la condizione umana, cioè il bene, e si impone un relativismo di valutazioni per cui le azioni o le omissioni possono essere buone in certe situazioni, negative in altre, cioè controproducenti e nemiche del bene. Può ben capitare, e capita spesso, che, volendo fare il bene, si faccia il male (e talora un gran male); se, ad esempio, non si fosse represso con la forza lo schiavismo, avremmo ancora la schiavitù in vari Paesi. Del resto le tante ipotesi della regola derogatoria, cui s’è accennato all’inizio dello scritto, sono una netta riprova di quanto poc’anzi sostenuto.    
Assunta come doverosa l’etica conseguenzialista e quella della responsabilità, deriva da queste l’obbligo di realizzare al meglio nella realtà il bene, che, nell’esperienza, talora si ottiene mediante il meno peggio. Quando l’alternativa è data da due effetti, costituiti dal male, si deve optare per necessità per il male minore (salvo che, per assurdo, si voglia determinare il male maggiore). A ciò va aggiunto il dovere di adottare un canone nella comparazione di effetti. Il principio d’eguaglianza deve valere nei confronti degli uomini di oggi e, in virtù del principio di giustizia intergenerazionale, di quelli futuri. Ciò implica che nella comparazione di effetti dolorosi si dovrà comparare il minor male di oggi con il probabile minor male del futuro. Se con un sacrificio di oggi ho un male 10 (si passi questa ipotetica quantificazione), contro un male di 1 dei posteri, mentre al contrario, con sacrificio 0, oppure 1, oggi ho un male futuro 100, devo optare per il sacrificio attuale. Quanto detto è ovvio in termini razionali, ma, data l’intensità della percezione di ciò che avviene nell’oggi, può avvenire, ed avviene, che si violi questo canone razionale.
Senza dilungarmi in una casistica, mi limito a citare due problemi, che si sono posti e si pongono nell’esperienza politica, indicando le soluzioni del minor male.    
Il primo problema, un macro-problema, è costituito dall’imposizione di sacrifici alle generazioni presenti o future. Pensando a fare il bene solo delle generazioni presenti, riducendo al minimo i sacrifici posti a carico dei viventi, può ben verificarsi (sia pur non sempre) che si rechino sofferenze e sacrifici ai posteri. In simili ipotesi, l’opzione moralmente corretta è, o sarebbe, l’imposizione di sacrifici nei confronti dei viventi onde evitare un male ben maggiore, che sarà subito dai discendenti. La comparazione e la scelta non saranno, in concreto, agevoli, ma la soluzione etica obbligata è quella esposta.         
L’altro problema, un micro problema, riguarda il pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi (od eventuale altra concessione di favori ai sequestratori). Quante volte, dinanzi alla minaccia (e forte rischio) di morte dell’ostaggio, viene invocata la necessità di salvare una vita umana, la vita di una vittima innocente, pagando il riscatto richiesto! E certo non è un’invocazione retorica, perché chiunque possieda un po’ di umanità è tentato di auspicare il cedimento nei confronti dei rapitori e salvare un essere umano. Però il cedimento al ricatto onde evitare il male di oggi (la morte di un innocente) può essere foriero di un male futuro ben maggiore. Per chiarire con un esempio, il pagamento di una consistente somma ad un gruppo di terroristi consentirà a questi di acquistare armi od esplosivi per compiere molti attentati od omicidi. Il pagamento del riscatto salverà una vita umana, ma incentivando i rapimenti e consentendo comunque il compimento di altri crimini, provocherà il sacrificio di un numero ben maggiore di innocenti di quanto lo sia quello dei beneficiati oggi (spesso solo uno). Evitare una morte provocando molte morti non è una soluzione moralmente giustificata perché, per evitare il male minore, ha generato un male ben maggiore a danno di molti esseri umani.            
Al diavolo il buonismo pseudoumanitario!      

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