Astensionismo e ipocrisie

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di Giuliano Vosa*

In un Topolino di qualche decennio fa, di fronte ai suoi campi allagati da un’improvvisa alluvione, Zio Paperone piangeva con un occhio solo: finché non si sarebbe celebrato il raccolto, i mezzadri non sarebbero stati pagati e le sue monete d’oro non avrebbero lasciato il Deposito. Quella vignetta, oltre ad arricchire il novero di riferimenti culturali del dibattito più recente, calza a pennello alle dichiarazioni di vari esponenti politici all’indomani delle elezioni del 25 settembre 2022. Per due motivi.

Uno: perché il pianto del coccodrillo a babbo morto, dopo aver stracciato il record negativo della storia repubblicana già fissato nel 2018, suona tremendamente ipocrita – poco si è fatto per stimolare la partecipazione in un frangente storico tanto delicato, sia nei cinque anni precedenti, sia alle soglie del voto – e alimenta il sospetto per cui un ceto politico chiamato a scelte impopolari reputi vantaggiosa la graduale riduzione dei cittadini politicamente attivi, poiché allenta il controllo che gli elettori esercitano sugli eletti.

Secondo: se il regolarizzarsi di tale diminuzione assicura ai dirigenti mani più libere nel breve periodo, non può dubitarsi che, nel lungo termine, pretendere di governare all’insaputa dei governati equivalga a segare il ramo su cui siedono gli uni e gli altri, trasformando in gusci vuoti le istituzioni del pluralismo. Ezio Mauro, dalle colonne di una Repubblica listata a lutto – epperò sempre speranzosa nel vincolo esterno – suona a raccolta le campane contro la nuova stagione populista: tuttavia, si direbbe, questa stagione è solo una nuova tappa di un technopopulism in atto da decenni, che ha già svuotato di senso, in misura nient’affatto trascurabile, le categorie e gli strumenti della democrazia rappresentativa.

Bene, anzi male: il ravvedimento operoso di una classe politica incautamente ignava, se non in penosa malafede, deve passare per alcuni punti salienti, da mettere a segno – si auspica – entro l’estate 2023.

Legge elettorale. Non c’è stato giorno, nei mesi scorsi, in cui non si sia gettata la croce sul Rosatellum-bis. Buona o malafede che fosse, occorre ora che la legge elettorale sia adeguata a logiche di comprensibilità ed eguaglianza del voto, assicurando in termini più stringenti quella conoscibilità elettore-eletto che la Corte costituzionale ha posto alla base del principio di rappresentanza. Quale tipo di sistema usare, non è qui rilevante; conta però che, qualunque sia la scelta, essa si appoggi sui tre pilastri della conoscibilità – liste brevi, no voto bloccato, no pluricandidature – e che neutralizzi, a tale scopo, gli effetti della commistione maggioritario-proporzionale. Basterebbe già questo a rinsaldare il legame fra territorio e istituzioni: si eviterebbero gli effetti del paracadutismo di certi prossimi parlamentari, e ad altri, ormai futuri ex, si risparmierebbe la brutta figura del fallito atterraggio. Si può?

Impresentabili. Se sì, allora si affronti, senza remore, il tema dei rapporti tra “politica” e forme di clientelismo elettorale che talora sfociano, da Sud a Nord, nel supporto alla criminalità organizzata. Se non si vuole affidare ai giudici il potere di decidere chi può candidarsi e chi no, come da tonitruante retorica “garantista”, si renda vincolante il parere della Commissione Antimafia, al netto di ogni indagine in corso. Una clausola interna sottoscritta da tutti i partiti, attivabile da ciascun iscritto in caso di violazione, in attesa di una legge che renda più pregnante il “metodo democratico” con riguardo alle forme della rappresentanza partitica. Resterebbe al giudice il compito di decidere sull’eventuale impugnazione da parte dell’escluso; tuttavia, se la clausola prevedesse con un buon grado di dettaglio i casi di esclusione, il tasso di politicità della decisione si ridurrebbe. Se la preferenza, si dice, implica il rafforzamento del clientelismo, allora si colga l’occasione di bonificare la rappresentanza dalle sue degenerazioni. Sradicare, in ogni sua forma, il voto di scambio – che da più parti, incredibilmente, si accomuna al reddito di cittadinanza, come se lo Stato e le mafie fossero legittimati in pari misura nel migliorare le condizioni di vita e lavoro dei cittadini, e come se una legge generale equivalesse a un accordo fuorilegge fra singoli – è un passaggio cruciale per far sì che, anche nelle aree più socialmente depresse, l’elettore torni ad attribuire al suo gesto un significato concreto.

Fuorisede. Una fetta cospicua di studenti e lavoratori, soprattutto giovani, e soprattutto originari del Sud, vive e lavora lontano dal luogo di residenza. Disinteressarsi della loro partecipazione, costringerli a spostarsi comprando biglietti a prezzi gonfiati – peraltro, in tempi di Covid crescente – è stata un’imperdonabile leggerezza. Si può provare a consentire loro di votare rimanendo nel luogo in cui dimorano – lavorano, studiano, vivono. La tecnologia potrebbe rendere utilizzabile una tessera elettorale in altro seggio anche senza recarsi fisicamente presso quello originario.

Firme digitali. Il caso Cappato, che ha minacciato la regolarità del voto fino a pochi giorni prima dell’apertura delle urne, evidenzia un’altra imperdonabile leggerezza – peraltro, dall’acre sapore discriminatorio verso le liste nuove, già discriminate ex se dall’obbligo stesso di raccolta delle firme. Prevedere modalità di sottoscrizione digitale delle candidature è già possibile, anzi in verità sarebbe (stato) obbligatorio per il Governo in base alla delega contenuta nella legge 165/2017 (art. 3, comma 7). Cinque anni (con quattro diverse maggioranze) non sono stati sufficienti. Che questo sia quello buono?

Elettori a mobilità ridotta. Anche in questo caso, può valutarsi un uso più ampio della tecnologia disponibile, rendendo più semplice votare per chi non può recarsi al seggio. Trascurare il contributo dei più fragili alla costruzione della comunità politica è un (altro) brutto segno; cancellarlo con azioni di segno opposto è doveroso e urgente.

Infine, una critica, garbata ma doverosa, al Presidente Mattarella. Come ricordava il Comunicato del 21 luglio 2022, “il periodo che attraversiamo non consente pause”; di qui lo scioglimento istantaneo, senza consultazioni di rito, e pure il riconoscimento al Governo Draghi di poteri normativi assai penetranti, benché in regime di “disbrigo degli affari correnti”. Ora, a fronte di un tale comportamento, forse, un’attenzione più puntigliosa alla qualità della rappresentanza prossima ventura sarebbe stata opportuna, proprio per le ragioni esposte nel Comunicato. Concertare col Governo una o due settimane in più di campagna elettorale, ad esempio, avrebbe permesso ai partiti nuovi di farsi conoscere meglio, e a quelli più consolidati di promuovere con maggior vigore la partecipazione dei cittadini all’evento elettorale. Avrebbe aiutato a ridurre l’astensionismo? Forse. Ma avrebbe dato il senso dell’importanza dell’evento, dell’attenzione, della partecipazione di cuore e ragione che le istituzioni si attendono dai cittadini quando spetta a ciascuno di loro l’esercizio della responsabilità pubblica più alta.

Altrimenti, si dà fiato ai sospetti peggiori: quelli di aver trattato quest’elezione, come la precedente e, chissà, la prossima, come un dente da cavarsi alla svelta. Fare in fretta per non disturbare il “manovratore”; ché tanto le linee generali della politica italiana andranno avanti “col pilota automatico”.  

Il voto, vale la pena ribadirlo, deve tornare ad essere percepito come un momento decisivo, come un evento emotivamente forte. E, perché sia percepito come tale, deve tornare ad esserlo, in una certa misura.

La necessità di rispettare i vincoli finanziari europei, di non turbare i mercati e di non agitare gli alleati internazionali non può essere assoluta, ma deve bilanciarsi col diritto di voto. Dovere civico e diritto fondamentale, il voto, cardine della sovranità popolare di cui all’art. 1 della Costituzione, da proteggere nei suoi risvolti formali e sostanziali.

Se non passa questo principio, e se l’incuria continuerà a corrodere la rappresentanza, il 63,9% dei votanti alla prossima tornata sarà un risultato difficilmente eguagliabile. E chi glielo spiegherà, allora, all’Europa, ai mercati e agli alleati, che i governanti controlleranno i palazzi ma non le istituzioni che rappresentano?

* Ricercatore t.d. (b) Università di Catania, Dipartimento di Giurisprudenza

 

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