Merita il merito?

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di Matteo Losana

Dopo l’idea dell’attuale governo di modificare la denominazione del Ministero dell’istruzione in Ministero dell’istruzione e del merito, la questione della meritocrazia sembra tornata prepotentemente alla ribalta. Si tratta di questione complicata, dietro la quale si nascondono formidabili interrogativi pratici.

Uno su tutti: può la meritocrazia interferire con il godimento di taluni diritti fondamentali? L’interrogativo potrebbe sembrare retorico, ma talune contingenze – reali o presunte tali – rendono oggi la risposta sempre meno scontata. In un mondo del lavoro sempre più dominato dalla forza contrattuale di grandi colossi, è possibile lasciare per intero all’autonomia negoziale privata il compito di stabilire chi merita retribuzioni dignitose e chi invece merita salari da fame? In un contesto pandemico oppure dinanzi a un (volutamente enfatizzato) allarme-sbarchi, è possibile subordinare o anche solo ritardare – per ragioni in qualche modo meritocratiche – le cure necessaire a preservare la salute di taluni soggetti? In un contesto economico sempre più competitivo, si può lasciare per intero alla scuola e alla formazione professionale il compito di selezionare chi merita successo e chi invece merita di soccombere? Dinnanzi a una crisi della rappresentanza politica che sembra sempre più irreversibile, è ammissibile limitare il diritto di voto dei cittadini chiedendo ai rappresentati specifici requisiti meritocratici? E ancora, in un paese in cui le disuguaglianze sono sempre più profonde, è possibile distribuire il carico fiscale premiando chi – anche per meriti personali – già dispone di maggiori risorse?

Quando il contesto materiale è deteriorato e le risorse disponibili più scarse, la tentazione di assumere il merito come principio universale di giustizia è fortissima. Dinnanzi a quelle che Calabresi e Bobbitt chiamano “scelte tragiche” – soddisfare la pretesa di Tizio oppure quella di Caio, perché entrambe non si possono (o non si vogliono) soddisfare; ma anche difendere le istituzioni rappresentative oppure rassegnarsi a un loro inesorabile declino – il criterio del merito sembra infatti inappuntabile. Ma forse così non è.      

La fascinazione dei nostri politici per la meritocrazia non rappresenta certo una novità. Già il precedente Presidente del Consiglio aveva, in qualche modo, riacceso i riflettori sul tema. E lo aveva fatto evocando, in diverse occasioni, un “debito buono” da contrapporre a un debito “cattivo”. Buono sarebbe il debito per le riforme e gli investimenti (funzionali alla crescita e alla competitività delle imprese); cattivo quello per sussidi e bonus (e poco importa se dietro il beneficio ci sia una concretissima situazione di bisogno). Una manichea divisione della società in due parti contrapposte, l’una contro l’altra armata: da un lato, il mondo produttivo che, lavorando per la crescita, merita un aiuto; dall’altra parte, un esercito di sussidiati pigri e improduttivi che, ostacolando la crescita, non merita alcuna forma di aiuto.

Ma anche risalendo un po’ più indietro nel tempo, la meritocrazia è stata spesso invocata come l’unica medicina capace di curare magicamente tutti i mali che affliggono il nostro paese. Nel 2014, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi poneva proprio la meritocrazia al centro dell’azione di governo, affermando che il criterio del merito avrebbe dovuto finalmente penetrare, senza troppe fastidiose distinzioni, in quasi ogni ambito: dall’impresa alla politica, passando per la scuola e la pubblica amministrazione. Durante la campagna elettorale del 2018, Luigi Di Maio si è spinto ancora oltre, giungendo addirittura a ipotizzare l’istituzione del Ministero della meritocrazia.

Nonostante il fascino esercitato, la meritocrazia rimane un concetto ambiguo e, almeno per certi versi, insidioso. Come noto, il termine entra nel dibattito pubblico alla fine degli anni ’50 del secolo scorso grazie al celebre romanzo del sociologo inglese Micheal Young, intitolato The Rise of the Meritocracy. Il neologismo – questo è il punto interessante – veniva utilizzato dall’Autore non per esaltare le ragioni del merito, bensì per metterne in luce i pericoli. La tesi di fondo è che l’applicazione generalizzata (e potremmo aggiungere poco sorvegliata) del principio meritocratico acuisce le disuguaglianze sociali, conducendo a quella che l’Autore definisce “la rivolta finale contro la meritocrazia”, ipotizzata tra l’altro per un oramai prossimo 2033. Come altrettanto noto, l’originaria accezione polemica del termine si è presto persa e il termine si è caricato di una connotazione positiva: studiosi, opinionisti e politici (conservatori, ma anche progressisti) hanno così dimenticato l’ammonimento di Young, per scommettere, senza troppi scrupoli, esclusivamente sui benefici della meritocrazia. Un travisamento che, nel 2001, ha indotto lo stesso Young a scrivere sulle pagine del The Guardian una famosa lettera a Tony Blair, Down with meritocracy, nella quale ricorda, sin dal titolo, il suo punto di vista critico e accusa il Primo Ministro inglese di utilizzare il termine senza aver letto il libro. Insomma, il termine – coniato per muovere una critica alle possibili degenerazioni del principio meritocratico – è stato presto catturato e poi ampiamente utilizzato dagli apologeti del principio medesimo.

La ragione della cattura è presto spiegata (M.J. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli, Milano, 2021): dividere la società in vincenti e perdenti per giustificare e rendere accettabili le disuguaglianze. Nella prospettiva fortemente meritocratica, infatti, il successo è sempre e comunque frutto del merito, mentre l’insuccesso è una colpa individuale. E poco importa la “dote” iniziale del vincente e la “zavorra” originaria del perdente (quelli che comunemente sono chiamati i punti di partenza o le dotazioni originarie delle persone). Ciò che davvero conta, e ci permette di separare i meritevoli dai non meritevoli, è solamente il risultato finale. In questo modo il merito diventa un formidabile strumento per conservare lo status quo e tramutare in pretese meritocratiche quelli che in realtà sono veri e propri privilegi. Un orizzonte davvero molto distante da quello emancipante disegnato dall’art. 3, comma 2, della nostra Costituzione.

Tra merito e giustizia sociale esiste allora un’irriducibile tensione per cui se c’è l’uno non ci può essere l’altra e viceversa? Se l’orizzonte è quello della divisione della società in vincenti e perdenti, l’incompatibilità è quasi assoluta. Perché spendere per i perdenti quando quelle risorse potrebbero essere impiegate per rendere ancora più competitivi – e dunque sempre più vincenti – i vincenti? Ma anche negare ogni spazio al criterio meritocratico non è certo una soluzione desiderabile. Chi mai vorrebbe essere curato da un medico che non sia stato selezionato secondo criteri meritocratici? Senza poi dimenticare che proprio la valorizzazione del merito è spesso la molla che spinge i singoli a sviluppare integralmente le proprie potenzialità. Dunque merito e giustizia sociale non solo possono, bensì devono convivere.

Una proposta che si muove in questa direzione è quella avanzata dal filosofo americano Michael Walzer, incentrata sul concetto di uguaglianza complessa. «I politici, gli imprenditori, gli scienziati, i militari e gli amanti più bravi – scrive Walzer – saranno, quasi sempre, persone diverse, e finché i beni in loro possesso non portano con sé altri beni non abbiamo ragione di temere i loro successi» (così M. Walzer, Sfere di Giustizia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, 31). Ecco spiegata, in poche efficaci parole, l’idea dell’uguaglianza complessa: non si tratta di dare sempre e in ogni caso a tutti le stesse identiche opportunità oppure la medesima quota di beni (come vorrebbe l’uguaglianza semplice o meramente formale), bensì di impedire che il successo in un determinato ambito (ad esempio, la politica) si traduca automaticamente nel successo in un altro e diverso ambito (ad esempio, quello economico). L’idea fondamentale è che ciascun bene sociale possiede un suo criterio distributivo intrinseco, che non può valere per altri beni. Detto altrimenti, se sono un politico influente è perché ho saputo raccogliere molto consenso e non perché ho accumulato una grande ricchezza in campo economico. Viceversa se ho accumulato grandi ricchezze economiche è perché ho esercitato con profitto le mie libertà economiche e non perché sono stato un politico influente. Insomma, bisogna individuare gli ambiti riservati a ciascun bene – le diverse sfere di giustizia – per poi mantenerli rigorosamente separati, impedendo così concentrazioni di potere non solo pericolose, ma anche contrarie al principio meritocratico. C’è forse del merito dietro la ricchezza accumulata abusando di una carica politica? E c’è qualche merito particolare dietro un consenso politico ottenuto abusando della propria forza economica?

L’uguaglianza complessa – separando gli ambiti, i criteri distributivi e le corrispondenti forme di potere che si possono legittimamente accumulare – non ambisce a realizzare una giustizia assoluta e universale (valida per tutti i beni e per tutte le persone), bensì forme di giustizia particolari, calibrate sui diversi ambiti materiali nei quali, di volta in volta, il “problema della giustizia” è calato (H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino, 1975). Forme di giustizia particolari, utili a disvelare quando dietro lo schermo del merito si nasconde l’ennesima prevaricazione a danno dei più deboli.

Proprio nella prospettiva dell’uguaglianza complessa, sembra muoversi la nostra Costituzione quando separa i diversi ambiti sociali, imponendo – in ciascuno di essi – uno specifico e autonomo criterio distributivo (A. Giorgis, La costituzionalizzazione dei diritti all’uguaglianza sostanziale, Jovene, Napoli 1999, 20 ss.). Riprendendo gli interrogativi iniziali, si possono fare i seguenti esempi.

Pensiamo innanzitutto all’ambito del lavoro e ai diritti dei lavoratori. In quest’ambito è la Costituzione stessa a indicarci secondo quali criteri i beni, di volta in volta rilevanti, dovranno essere distribuiti: una retribuzione dignitosa, il riposo settimanale e le ferie retribuite – ad esempio – solo e soltanto secondo il criterio del bisogno (come prescritto dall’art. 36, commi 1 e 3, Cost.); le eventuali promozioni o altri benefici accessori, solo e soltanto secondo il criterio del merito (ogni altro criterio che valorizzasse qualche particolare qualità personale sarebbe infatti contrario ai divieti di discriminazione scolpiti nell’art. 3, comma 1, Cost.).

Pensiamo alla tutela della salute e al connesso diritto alle cure. In questo ambito, l’unico criterio distributivo consentito dalla nostra Costituzione è il criterio del bisogno. Chi ha bisogno di cure deve essere curato, indipendentemente dalle sue condizioni economiche (come prescritto dall’art. 32, comma 1, Cost. che garantisce «cure gratuite agli indigenti») e da altre qualità personali che nulla abbiano a che fare con la necessità di ricevere la cura. Mai come oggi è bene ricordarlo: anche il “detenuto” (non importa se in carcere oppure su una nave al largo delle nostre coste) e l’immigrato (non importa se regolare o irregolare) hanno il diritto di ricevere le cure necessaire. Insomma, dinnanzi alle cure non ci sono meriti particolari che possono essere spesi, bensì solamente bisogni che, come tali, devono essere soddisfatti.

Pensiamo ancora all’istruzione e al connesso diritto allo studio. Tutti devono poter accedere all’istruzione obbligatoria, indipendentemente dalla loro condizione economica e da altre qualità personali. L’unico criterio distributivo del bene istruzione è, ancora una volta, il criterio del bisogno. Ogni altro criterio sarebbe inesorabilmente discriminatorio. Nessuno spazio dunque per classi diversificate in ragione della provenienza o peggio ancora dell’appartenenza etnica, religiosa o culturale degli studenti. Il criterio del merito interviene a valle dell’accesso all’istruzione obbligatoria, per valutare il percorso formativo degli studenti, oppure per garantire anche agli indigenti la possibilità di raggiungere i livelli più elevati di studio (come recita esplicitamente l’art. 34, comma 3, Cost.). In questa prospettiva, il Ministero che avrebbe meglio tollerato una ridenominazione in senso meritocratico era forse quello dell’Università e della ricerca, non certo quello dell’istruzione.

Pensiamo infine alle cariche politiche elettive e al connesso diritto fondamentale di voto. In questo ambito la Costituzione – riconoscendo in termini universalistici il diritto di voto e qualificandolo esplicitamente come libero (art. 48, commi 1 e 2, Cost.) – ammette, come unico criterio distributivo delle cariche, il criterio del consenso. È pur vero che la Costituzione stessa e la legge, disciplinando l’elettorato attivo e quello passivo, limitano talvolta il diritto di voto e la possibilità di accedere alla carica elettiva (per incandidabilità, ineleggibilità o incompatibilità). Ma queste particolari limitazioni – è bene precisare – non hanno nulla a che fare con meriti personali come – ad esempio – la conoscenza di determinate materie oppure il possesso di specifiche competenze. Invocare il merito come panacea di tutti i mali da estendere anche «alla politica e alle cariche che essa distribuisce» (V. Mancuso, Senza merito non c’è giustizia. Ora lo pretendiamo anche dalla politica, in La Stampa del 27 ottobre 2022) rappresenta dunque una pericolosa scorciatoia, che travisa il criterio distributivo indicato della Costituzione e lascia trasparire una concezione elitaria dei diritti politici. Analogo travisamento produce la scelta di riconoscere il diritto di voto ai cittadini residenti all’estero e negarlo agli stranieri residenti in Italia. Se il criterio distributivo è il consenso, nessun rilievo dovrebbe assumere il sangue che corre nelle vene delle persone. Una democrazia è tale se tutti possono votare e tutti possono essere votati. Il problema semmai è come garantire la libertà (anche dal bisogno) del diritto di voto. Non certo come limitare, tramite insidiosissime barriere meritocratiche, l’accesso alle cariche elettive. Discorso del tutto diverso vale invece per le cariche pubbliche. In questo ambito la Costituzione – sancendo il principio secondo cui agli impieghi pubblici si accede per concorso (art. 97, comma 3, Cost.) – ritiene applicabile solamente il criterio del merito. È solamente questo l’ambito nel quale la battaglia per il merito andrebbe condotta con determinazione.   

Venendo infine ai doveri, si può richiamare l’ambito tributario e il connesso dovere inderogabile di contribuzione fiscale. In questo ambito i criteri distributivi del carico fiscale indicati dalla Costituzione sono chiarissimi: la capacità contributiva e la progressività dell’imposizione (come sancito dall’art. 53 Cost.). Nessun rilievo particolare dovrebbe invece assumere il merito. Ecco perché la proposta della c.d. flat tax incrementale – volta a premiare, come affermato dalla Presidente del Consiglio Meloni, chi si è rimboccato le maniche in anni difficili – è una proposta contraria all’idea di uguaglianza complessa accolta dalla nostra Costituzione. I criteri distributivi del carico fiscale non ammettono scorciatoie e impongono di chiedere di più (non di meno) a chi ha di più. Ma sul punto – oggi – il consenso sembra davvero ai minimi storici.

Il nodo è dunque sempre lo stesso: dominio oppure emancipazione? Riconoscendo i diritti fondamentali e sancendo i doveri inderogabili di solidarietà, la scelta emancipante della nostra Costituzione è stata tanto netta quanto impegnativa. Diamo dunque al merito lo spazio che… si merita, ma non un centimetro in più. Ci sono ambiti nei quali il merito non deve entrare; ambiti nei quali il merito concorre con altri criteri e ambiti dai quali il merito non deve uscire. Se oggi vogliamo proprio difendere dei confini, cominciamo da quelli che separano i diversi ambiti e i criteri distributivi dei beni sociali indispensabili per condurre una vita «libera e dignitosa». Senza farci ammaliare da facili e spesso truffaldine scorciatoie.

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