Le conclusioni dell’Eurogruppo: anatomia di una capitolazione

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di Marco Dani*Agustin Menéndez**

Se non ora quando? Questo devono essersi chiesti tanti sinceri europeisti all’inizio del negoziato iniziato in seno all’Eurogruppo e al Consiglio europeo di fronte al propagarsi dell’epidemia Covid 19 e al manifestarsi delle sue drammatiche conseguenze economiche. Infatti, quale occasione  migliore di un’epidemia che miete vittime nelle società e nelle economie europee per dimostrare concretamente che la solidarietà in Europa non è una chimera?

Incassata, almeno nel breve termine, la copertura da parte della Banca Centrale Europea, l’obiettivo dei governi più esposti alle conseguenze dell’incipiente crisi economica era duplice: evitare le condizionalità del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e convincere i partner europei a dotarsi di strumenti idonei ad ottenere le risorse necessarie ad un rilancio dell’economia reale e al rafforzamento dei sistemi sanitari, entrambi provati da un’epidemia di proporzioni inimmaginabili. La posta in gioco erano gli agognati Eurobond, ovvero titoli di debito pubblico emessi dall’Unione, ma nei fatti garantiti congiuntamente dai bilanci degli stati membri. Ebbene, nelle conclusioni dell’incontro dell’Eurogruppo del 9 Aprile scorso, di Eurobond nemmeno si parla, mentre l’unico strumento di cui si chiarisce la portata è il MES. Certo, nel comunicato dell’Eurogruppo si fa un gran parlare di solidarietà. Ma come già in altre stagioni del processo di integrazione europea, la retorica serve perlopiù a dissimulare una realtà molto meno gratificante.

Il comunicato dell’Eurogruppo si compone essenzialmente di due parti. Nella prima si fa lo stato dell’arte degli strumenti già apprestati o in via di attuazione per far fronte alla crisi. Si tratta di un mix di misure statali e di interventi dell’Unione. L’Eurogruppo infatti prende atto delle misure di stimolo all’economia predisposte dai governi e dai parlamenti nazionali per sostenere i sistemi sanitari, le strutture della protezione civile, i lavoratori e le imprese. Si tratta di misure che è possibile adottare in ragione della dell’attivazione della general escape clause del Patto di stabilità (art. 5(1) del reg. 1466/1997) e della sostanziale disattivazione dei limiti all’erogazione di aiuti di stato (punto 8). L’ammontare di questi strumenti è di dimensioni significative, visto che si parla di interventi finanziari pari al 3% del PIL dell’Unione, a cui si aggiungono garanzie e dilazioni fiscali che si stima possano raggiungere il 16% del PIL dell’UE (punti 5 e 6).

Due però sono le osservazioni che si devono fare a questo riguardo. Anzitutto, è bene sottolineare che la sospensione del Patto di Stabilità ha natura temporanea, circostanza questa molto rilevante se si considera che tutte queste misure vanno ad incrementare i disavanzi pubblici e, quindi, a rendere più difficile se non impossibile un rapido rientro all’interno dei parametri macroeconomici vigenti nell’Eurozona. Inoltre, le imponenti dimensioni degli interventi statali non devono ingannare: le risorse a disposizione non sono equamente ripartite all’interno degli stati, ma costituiscono solo la somma delle diverse disponibilità nazionali, sicché è facile prevedere che al termine della crisi le notevoli divergenze già esistenti all’interno dell’Eurozona prima della crisi risulteranno ingigantite (come già succeso dopo il varo del’European Economic Recovery Programme nel 2008). Infatti, non solo l’impatto della crisi non è lo stesso in tutti gli stati membri, ma anche il loro margine di azione varia notevolmente: se la Germania, grazie al basso debito pubblico e all’alto surplus commerciale, può permettersi di intervenire con misure incisive, decisamente più limitati sono gli spazi di manovra per stati con alto debito pubblico (Italia) e limitatissimi quelli degli stati con alto debito pubblico e disavanzo esterno (Spagna).

Il comunicato elenca poi alcuni strumenti messi in campo dall’Unione europea. Si fa riferimento alle misure con cui si sono in parte riorientati i fondi strutturali e li si è svincolati dall’obbligo di co-finanziamento da parte degli stati (punto 9). Soprattutto, si richiamano le iniezioni di liquidità alle imprese e i programmi di acquisto di titolo di debito pubblico statali ad opera della BCE, ad oggi probabilmente l’unica misura che consente alle economie degli stati membri di rimanere a galla.

Fin qui lo stato dell’arte; ma che cosa c’è di nuovo? Davvero poco.

Nella seconda parte del comunicato, l’Eurogruppo prevede di mobilitare ulteriori 2.7 miliardi di Euro presenti nel bilancio europeo  per sostenere i sistemi sanitari nazionali (punto 14) attraverso l’attivazione del meccanismo d’assistenza d’emergenza (secondo la proposta già annunciata una settimana fa).

Veniamo quindi alle misure su cui più si era discusso alla vigilia dell’Eurogruppo.

Si crea un fondo di 25 miliardi di Euro, che sarà gestito dalla Banca Europea per gli investimenti (punto 15) e che, secondo le aspettative, dovrebbe permettere di garantire prestiti alle imprese per un valore vicino ai 200 millardi. Certamente si tratta di un importo molto meno simbolico di quello prospettato meno di un mese fa (8 miliardi di prestiti), ma ancora manifestamente insufficiente per l’insieme dell’Unione Europea (si consideri che è quasi quattro volte inferiore alle risorse mobilitate dalla sola Germania).

Il comunicato ha il merito di fare chiarezza riguardo al MES (punto 16), le cui risorse potranno essere attivate a richiesta dei governi nazionali interessati per far fronte alle spese sanitarie relative alla cura e alla prevenzione del Covid 19. In quel caso, ma soltanto in quel caso, la condizionalità si limita al vincolo di destinazione alle spese sanitarie. In più, nulla esclude che i Memoranda of Understanding che saranno siglati inizialmente non possano mutare con il passare del tempo. Quest’ultima eventualità è tutt’altro che teorica; è lo stesso comunicato ad ammettere che, una volta superata l’epidemia, gli stati beneficiari saranno tenuti a conformarsi all’intero complesso delle regole macroeconomiche europee. Questo ultimo è un chiaro segno che siamo ben lontani d’una condizionalità “soffice”.

Un simile ricorso al MES appare alquanto inadeguato in relazione alle reali esigenze emergenti sul fronte sanitario della crisi. Le cronache quotidiane non rappresentano solo una situazione caratterizzata dall’insufficiente finanziamento delle strutture sanitarie. A mancare sono anzitutto i materiali sanitari, difficilmente reperibili sul mercato se non a costi esorbitanti, ed il personale medico-ospedaliero, sulla cui consistenza incidono in misura rilevante le “razionalizzazioni” dell’austerità. Insomma, la decisione fondamentale dell’Eurogruppo a questo riguardo non è quella di un cambio di paradigma rispetto ai mantra della bell’epoque neoliberale, ma l’erogazione di un credito a tasso agevolato assistito da privilegio. Un modo abbastanza curioso per declinare l’idea di solidarietà.

Insomma, al di là delle spese strettamente connesse all’epidemia, nulla cambia nel MES, visto che anche le spese dirette a finanziare l’attuale emergenza economica e la ricostruzione, come si è affrettato a sottolineare il Ministro delle finanze olandese Hoekstra, rimangono soggette ad una condizionalità “dura”.

Difficile intravedere solidarietà anche nel SURE, lo strumento che in teoria dovrebbe contribuire a mitigare l’impatto occupazionale della crisi Covid 19 (punto 17). Come già evidenziato nei primi commenti alla proposta della Commissione, lo strumento in questione ha una capienza molto ridotta (100 miliardi di Euro per tutta l’Unione), ha natura temporanea (cioè circoscritta alla sola epidemia) e, soprattutto, risponde alla stessa logica creditizia del MES. I lavoratori infatti non beneficeranno di uno strumento assicurativo transnazionale che li protegga dal rischio della disoccupazione in una genuina ottica solidaristica. Il SURE si presenta infatti come uno strumento aggiuntivo ai sistemi assicurativi nazionali la cui operatività si basa in parte sul bilancio dell’Unione, in parte su garanzie che gli stati membri dovranno predisporre qualora manifestino il loro interesse. Inoltre, la struttura finanziaria delineata dalla Commissione pone gli stati più indebitati davanti ad un difficile dilemma, dovendo valutare se sia più conveniente il beneficio di tassi di prestito agevolati o il costo delle garanzie richieste.

Infine, il comunicato dell’Eurogruppo accenna in modo abbastanza confuso ad un Recovery Fund (punto 19), ovvero ad un programma temporaneo di sostegno all’economia reale soprattutto per gli stati maggiormente colpiti dalla crisi. Da quel che è dato capire, il finanziamento di questo strumento dovrebbe essere assicurato dal già esiguo bilancio dell’Unione e, in ogni caso, il comunicato non ne stabilisce l’attivazione, ma rinvia la decisione sull’ammontare, la struttura e la tempistica al Consiglio europeo. A tal riguardo, è bene ricordare che il Trattato sul Funzionamento dell’UE non solo impone il pareggio del bilancio sovranazionale (art. 310(1) TFUE), ma richiede anche una decisione unanime del Consiglio per l’aumento delle entrate (art. 311 TFUE). Insomma, la sensazione è che si tratti della classica foglia di fico dietro la quale i fautori degli Eurobond proveranno a dissimulare il loro insuccesso. Un film già visto al tempo dell’unione bancaria, quando alla perdita di controllo nazionale sulla sorveglianza degli istituti creditizi (molto attenuata in alcuni stati membri), non è ancora seguita la predisposizione di un fondo comune per affrontare le crisi bancarie.

Insomma, la montagna europea ha partorito un altro topolino, ed il Consiglio europeo, salvo clamorose sorprese, non potrà che prenderne atto. Di questo, si badi, c’è poco di cui gioire, poiché già prima dell’attuale crisi era evidente come la dotazione finanziaria dell’Unione (un esiguo 1% del PIL) fosse inadeguata rispetto all’ampiezza delle sue competenze. Si sono messi in comune i rischi senza riuscire a dotarsi di una comune struttura assicurativa. Con tutta evidenza, però, manca nei governi europei una volontà politica sufficiente ad operare un deciso cambio di paradigma in direzione di una vera solidarietà tra gli stati ed i cittadini europei. Piuttosto che dissimulare questa realtà, occorrerebbe prenderne pienamente atto ed agire di conseguenza.

Quella dell’Eurogruppo del 9 aprile è una sconfitta, ma non è ancora una disfatta. Più che sperare in un’improbabile attuazione del Recovery Fund, meglio sarebbe prepararsi al momento in cui si verificherà l’ineluttabile escalation. A quel punto ai partner europei andrà posta molto chiaramente l’alternativa tra il completamento della zona Euro, con una banca centrale ed una politica economica comune degne di questo nome, o lo smantellamento coordinato dell’Eurozona, con il conseguente ritorno ad un sistema più flessibile di valute nazionali. Entrambe le opzioni sollevano enormi problemi di ordine economico ed istituzionale: la prima impone la creazione di un circuito di responsabilità politica idoneo a legittimare i trasferimenti di risorse all’interno dell’Eurozona; la seconda richiede di trovare il modo di non gettare il bambino (l’integrazione europea) con l’acqua sporca (la struttura esistente dell’Eurozona).

E’ probabilmente questa la scelta a cui è chiamata questa generazione; arriverà presto il momento di affrontarla senza nascondersi dietro ad uno status quo che giorno dopo giorno appare sempre più impossibile.

* Università di Trento (Italia)

** Universidad Autónoma de Madrid (España)

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4 commenti su “Le conclusioni dell’Eurogruppo: anatomia di una capitolazione”

  1. Forse gli autori hanno sbagliato testata. Forse no. Questa non è analisi giuridica, ma propaganda politica. In contrasto con eminenti conoscitori delle istituzioni europee, Romano Prodi, Mario Monti e Lorenzo Bini Smaghi, gli autori condannano con un “no rotondo” il pre-accordo raggiunto nell’Eurogruppo, interpretato come “una capitolazione” (rispetto agli euro-bond). Ogni punto dell’accordo, invece di essere valutato nelle sue ragioni, disposizioni e conseguenze, è censurato sommariamente, sempre in base allo stesso preconcetto, cioè che i paesi dell’euro-zona dovrebbero, per ragioni di solidarietà fiscale, principio implicito dell’unione, garantire una parte consistente dell’indebitamento italiano necessario per far fronte alla crisi economica creata o aggravata dalla lotta all’epidemia.
    Sia chiaro, dopo un primo momento di isteria nazionale, la solidarietà sanitaria fra stati membri è intensa, anche se i responsabili politici e i media italiani hanno preferito evidenziare gli aiuti cinesi e russi. La sanità, di competenza nazionale, è gestita in Italia dalle regioni. La collaborazione fra altri paesi europei meno litigiosi, più rispettosi li uni degli altri e più responsabili è stata facile, scontata e proficua. Le autorità francesi hanno evidenziato (conferenza stampa giornaliera alle 19:00 ritrasmessa da France24) l’assistenza fattiva ricevuta da Germania, Lussemburgo, Austria e… Svizzera.
    In Italia, e in particolare in Lombardia, la gestione politica della lotta all’epidemia si è rivelata gravemente inadeguata. Ci sarà da indagare, analizzare, giudicare e prendere misure per migliorare il governo politico della sanità e garantire un servizio più efficiente ai cittadini e ai residenti. Poco se ne parla. Quello che interessa sono i fondi, davvero ingenti, che serviranno per investire nella sanità e altrove. Essendo le risorse fungibili sarà difficile distinguere fra spese pubblica sanitaria e altra, di politica economica e sociale.
    Il governo italiano, gran parte dell’opinione pubblica e gli autori dell’articolo rivendicano la solidarietà fiscale dei cittadini-residenti-contribuenti-elettori degli altri stati membri a favore del nuovo debito pubblico italiano, non si sa bene se per spesa sanitaria specifica o economica e sociale in genere. Nel dubbio si chiedono tutti i due. Uno dei punti dell’accordo commentato (il SURE) risponde, per ragioni politiche facili a indovinare, proprio al desiderio di coprire anche spesa sociale, indennità di disoccupazione o CIG. Ma, tenuto conto dell’importo contemplato, l’UE non potrà e finora non intende assumere tale impegno per tempi indeterminati: inciterebbe, infatti, i singoli paesi a negligere la politica dell’occupazione. La misura è quindi poco più che simbolica.
    Rimane il dilemma fra euro-bond e MES. Nessuna della due soluzione sembra adeguata. La seconda è uno strumento per intervenire con fondi europei, di tutti, su richiesta di uno stato in difficoltà, ma a condizioni severe e controlli stringenti, da decidere di volta in volta. Il MES esiste dal 2011/2012, come ricostruito, dopo accuse infondate e falsificazioni dei fatti fra opposizione e governo, in autunno scorso e ora di nuovo. Bisogna rimodellarlo alle esigenze nove. Come si sta già facendo. Romano Prodi non capisce perché il governo si ostina a rifiutare fondi praticamente gratuiti. La prima consiste invece a finanziare tutti gli stati secondo una chiave da definire (popolazione piuttosto che PIL) con fondi forniti e garantiti da tutti, aumentati con strumenti di leva, ridistribuiti seconda la chiave scelta fra gli stati che li spendono secondo le proprie preferenze e valutazioni e sotto la propria responsabilità e li rimborsano a una scadenza talmente lunga che l’obbligo di doverlo fare incide poco. La stessa “sottile” differenza caratterizza l’auspicato Recovery Fund, a volte confuso dalla stampa italiana con un Recovery bond.
    Finora gli euro-bond non esistono perché sono incoerenti con la struttura giuridica, politica e costituzionale dell’UE. Le materie messe in comune, fra cui non figura la sanità, sono finanziate attraverso un budget di cui le istituzioni europee (consiglio, parlamento e commissione) determinano e controllano l’utilizzo. Dietro le quinte si discute di aumentarne l’importo da 1.135 a 1.600 miliardi. Esiste anche la BCE che attraverso una politica monetaria pro-attiva riesce a immettere quantità ingenti di liquidità nelle banche dell’euro-zona. Queste liquidità sono state aumentate recentemente, in due tappe, in modo consistente.
    Dal punto di vista costituzionale il fantasmagorico euro-bond, debito comune da spendere ognuno come meglio crede, è cosa ben diversa dal budget (istituzioni UE, cioè Commissione, Parlamento, corte e consiglio, legittimate soprattutto attraverso gli stati riuniti nel Consiglio il quale delibera all’unanimità, ogni paese impegnandosi secondo le proprie regole costituzionali), dalla BCE (con statuto indipendente e obbligata a render conto periodicamente del proprio operato) e dal MES (decidono gli stati sovrani e democratici, nei limiti e secondo le procedure delle proprie costituzioni, garantiscono tutti, ma controllano organi comuni). Con l’emissione di euro-bond da approvare nel Consiglio, quindi da tutti i governi, tutti i cittadini-residenti-contribuenti-elettori di tutti gli stati membri garantirebbero, sul proprio patrimonio e nei limiti dell’importo da emettere, delle spese pubbliche che saranno decise e gestite dal governo di ogni singolo paese, in ultima analisi dai cittadini-elettori di quel paese, nei limiti dell’offerta e della competizione politica e delle leggi elettorali vigenti.
    Finora gli elettori italiani hanno affidato il potere di spesa pubblica a governi che sono stati inadempienti con gli impegni di politica economica e fiscale presi in precedenza, e che hanno perseguito politiche divergenti, spesso demagogiche e fallimentari (p.es. la flat tax, tuttora sul programma della destra, ma anche l’abolizione dell’IMU prima casa, quota 100, il reddito indiscriminato “di cittadinanza”). Dal 2018, questa divergenza di vedute fra Italia e euro-zona si è clamorosamente aggravata. Nell’immediato le prospettive sono preoccupanti: il ministro degli interni Murgese, il governatore di Bankit e il procuratore Gratteri avvertono governo e opinione del rischio di infiltrazioni malavitose nell’erogazione dei fondi pubblici – un rischio non abbastanza considerato, estremamente diffuso, che riguarda la criminalità più grezza – le mafie – passa attraverso quella a collo bianco – le truffe continue spesso non sanzionate a danno dell’UE, dello stato e dei privati – e culmina nella corruzione sistemica e sistematicamente occultata della classe politica e di tutto quello che ne dipende, tutto quello che riceve soldi pubblici o dipende da nomine pubbliche. L’uso abusivo di soldi pubblici crea una solidarietà obiettiva fra i vari livelli di comportamento criminale.
    Nel breve termine, su tre a cinque anni, le previsioni sono catastrofiche: i sondaggi danno la destra anti-europea e post-liberista, intenzionata a sfidare i vincoli europei, in netto vantaggio.
    Sul lungo termine, per quanto prevedibile, le previsioni sono ancora peggiori per via dell’incertezza più assoluta della politica fiscale e della sostenibilità dei conti messa troppo sotto pressione.
    Contrariamente a quanto insinuato dagli autori, non è l’UE a promuovere politiche liberiste. Si tratta di ideologia e di politiche secondo le quali gli interessi privati prevalgono su quelli pubblici. Non corrisponde questo piuttosto alla politica degli ultimi 30 anni della destra italiana? L’UE e paesi (“falchi”) come l’Olanda, la Finlandia e la Germania promuovono invece da mezzo secolo politiche liberal-sociali, cioè a favore della trasparenza e del mercato (sono quasi sinonimi, il mercato suppone oltre la trasparenza anche delle regole) come miglior strumento di politiche sociali efficienti, impegnative, molto protettive. Le divergenze politiche e lo scenario pessimistico (nel breve e nel lungo termine) spiegano la posizione degli attori in campo, nazionali ed europei, e l’importanza di una distinzione rigorosa fra budget europeo per politiche condotte dall’UE, MES condizionato e controllato e indebitamento solidale speso sovranamente, senza condizioni né controlli, da ogni stato.
    Il presidente del consiglio dei ministri, il suo ministro EF, il governo e gran parte dell’opinione pubblica italiana si sono cacciati in una situazione senza via di uscita (onorevole): non possono ottenere quello che chiedono, i governanti non possono consegnare quello che promette ai cittadini. L’opinione pubblica e accademia non riesce a comprendere le carte sul tavolo, il diritto vigente, le posizioni dei partner e le loro ragioni, le rivendicazioni e le polemiche italiane, i rapporti di forza, interni e europei. Vuol dire che i protagonisti politici non capiscono? Penso di no. Penso che si tratta di una mossa della disperazione di governanti deboli e senza idee, rivolgendosi ad un’opinione pubblica mal informata, un tentativo forzatura dell’eterno perdente, e di un’opposizione che persegue cinicamente una strategia del tanto peggio. Alla fine si spiegherà “la capitolazione” con nuove bugie.
    L’aspetto più pernicioso di questa narrativa (politica, mediatica e ahimè pure accademica) fallace è il seguente: il discorso non veritiero, le forzature giuridiche, le minacce mediatiche, l’impossibilità di soluzione razionale, l’inevitabile fallimento (bocciatura delle pretese o compromesso al ribasso) non possono che favorire il consenso di quella parte politica che difende più coerentemente una politica (anti-)europea del ricatto, Salvini e Meloni, appoggiati furbamente dal più astuto ex presidente del PE.
    In questa situazione portata ad una certa esasperazione, aggravata dal dramma dell’epidemia, una parte dell’opinione pubblica degli altri paesi comincia a propendere verso una maggiore generosità nei confronti dell’Italia. Pur convinti dell’incoerenza, dell’insostenibilità e dell’enorme rischio di creare più danni che benefici, alcuni pensano che bisogna rinunciare ai principi, concedere qualche aiuto al governo italiano, anche se nessuno si fa illusioni sulle capacità del paese di invertire la rotta, adottare politiche convergenti e virtuose, a beneficio dei propri cittadini e tutta l’UE. Il consiglio dei capi di stato e di governo troverà uno strumento per permettere all’Italia, al suo governo, di non perdere la faccia (se ce l’ha ancora). La parte incondizionata non può essere di peso, perché non reggerebbe nel tempo. La parte sostanziale e durevole sarà assortita di condizioni e controlli. Sarà un limite alla sovranità nazionale? Dipende dalle definizioni. Non sarebbe nell’interesse dei cittadini-residenti- contribuenti-elettori italiani accettare le condizioni dei partner europei piuttosto che affidare il loro destino a governi nazionali che si sono sempre mostrati inefficienti, inaffidabili, incapaci, con il peggio forse deve ancora arrivare?
    La vera alternativa sarebbe un’Italia orgogliosa, responsabile e vincente che dopo un esame di coscienza e aver guardato la realtà in faccia, individuato i propri difetti, si convinca delle proprie capacità di gestire spesa pubblica e debito, sappia definire e condividere politiche coerenti e virtuose, dotarsi di istituzioni democratiche autentiche in grado di perseguire tali politiche nel tempo, e sostenere il nuovo corso con un discorso pubblico veritiero e coraggioso, in modo da diventare un partner europeo costruttivo e affidabile invece di essere il maggior rischio di inefficienza, di spreco, di illegalità, di corruzione delle istituzioni e delle menti in Europa.

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    • La crisi sanitaria e’ solo un acceleratore della crisi europea. Dal 2008 ad oggi le divergenze economiche fotografate da Eurostat tra i paesi dell’area euro e’ aumentata a dismisura . Da un lato Germania , Olanda, Lussemburgo e dall’altro Francia, Italia, Spagna , Grecia ecc. Solo per fare il esempio il PIL pro capite in Germania e’ cresciuto di più del 30% rispetto all’Italia. La spesa sanitaria pro capite in Germania e’ cresciuta del 38% superando i 3600 euro pro capite in Italia e’ di 1700 euro dopo tagli dell’8%. In Grecia non raggiunge i 900 euro dopo tagli del 37%. Anche un bambino capisce che così non può durare

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  2. Sulle conclusioni dell’ Euro gruppo del 9 aprile invito a leggere un lungo e documentato articolo di Carlo Cottarelli comparso su “La Stampa” del 12 aprile 2020. Ne condivido totalmente il merito, del tutto divergente rispetto all’ articolo oggetto di commento. Quanto al metodo, l’autore lamenta come la questione del sostegno finanziario dell’ Europa contro l’epidemia sia diventata una pura guerra di comunicazione. Usare parole eccessive come capitolazione o disfatta ne sono il sintomo.

    Pietro Ciarlo

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  3. Faccio notare che lo stimatissimo Carlo Cottarelli inizialmente, e a mio grande disappunto, non si è pronunciato contro gli euro-bond o corona-bond. Vuol dire che ha messo un po’ di tempo a capire la natura perniciosa, anti-democratica e anti-europea dello strumento. A Bruxelles si discute invece di un Recovery fund. Le risorse saranno o nel budget UE (votato all’unanimità) o versate pro quota dagli stati, ciò che è sostanzialmente equivalente. In teoria si può fare leva sul capitale versato con emissioni di obbligazioni. Ma il punto cruciale è la condizionalità, cioè la destinazione specifica e il controllo comune (europeo) dell’utilizzo. La richiesta del governo italiano è pura follia. Gli stessi cittadini dovrebbero preferire le condizioni e il monitoraggio europeo ad un uso discrezionale da parte del governo, qualunque esso sia.

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