Pericolo di estinzione umana e interpretazioni giuridiche

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di Michele Carducci

Il primo agosto 2022, è stato pubblicato, sui prestigiosi PNAS, un articolo a dir poco inquietante, introdotto dal titolo: Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios. La sua uscita è stata annunciata persino da alcune testate giornalistiche e televisive (evento quasi unico nel panorama dell’informazione italiana).

Il contenuto dello studio può essere così di seguito riassunto. Una gestione prudente di un rischio planetario richiede sempre la considerazione degli scenari “bad-to-worst” (“di male in peggio”). È quanto l’umanità del secondo Novecento ha appreso dal rischio nucleare. È quanto si è riscontrato con la pandemia da Covid-19 e si sta riscontrando con la guerra in Ucraina.

Di fronte all’emergenza climatica, che consiste in una minaccia esistenziale non solo planetaria (perché estesa sull’intero spazio terrestre) ma anche ubiqua (perché immanente nel tempo termodinamico del pianeta e della vita di ciascuno di noi), si assiste al paradosso della deliberata negazione o sottovalutazione di questa prudenza. I potenziali futuri dell’emergenza climatica non sono presi in considerazione dai decisori e sono ancora poco studiati dalla scienza.

Eppure le evidenze che il cambiamento climatico antropogenico possa condurre al collasso dell’attuale convivenza sociale o addirittura all’estinzione umana sono in aumento. Né si può dimenticare che la storia ci consegna esperienze di collassi socio-istituzionali. Non abbiamo precedenti di estinzione umana, ma il dato dovrebbe indurci a riflettere.

In definitiva, le scenari di catastrofe e di estinzione non rappresentano un “ignoto”, bensì un dato da approfondire. La stessa Unione europea, nell’inaugurare il suo Green Deal, lo ammette.

Ciononostante, esso permane sottovalutato.

Non è questa la sede per discutere le (numerose) ragioni della sottovalutazione. Utile, invece, può essere qualche rapidissimo spunto di interrogazione sul ruolo dell’interpretazione del diritto nella prospettiva “bad-to-worst” dell’emergenza climatica. Esso, infatti, si traduce nella seguente domanda: possiamo interpretare il diritto in modo “normale” – come se niente fosse – quando la termodinamica dell’intero sistema Terra sta abbandonando la sua plurimillenaria “normalità”? Come giuristi siamo abituati a discutere di “normalità”-“normatività”. Tuttavia, lo facciamo sempre in modo autopoietico (ossia riferendoci alla realtà giuridica come un sistema separato dalla realtà terrestre) e spesso a-scientifico se non addirittura antiscientifico, ovvero ignorando le più elementari leggi del sistema climatico, a partire dalle c.d. “tre leggi della biologia”. In poche parole, commettiamo veri e propri errori epistemici, nel momento in cui tramutiamo categorie, derivate dalla conoscenza scientifica, in figurazioni meramente giuridiche. Gli esempi sono diversi e, non a caso, riguardano tutti l’ambiente e la vita, ovvero la condizione biofisica, prima ancora che sociale, dell’esistenza. Per esempio, nel contesto dei formanti giuridici italiani, l’ambiente è qualificato quasi sempre come “valore”, in quanto tale bilanciabile con gli altri “valori” in una presunzione di oggettiva e reale equivalenza, che – nelle acquisizioni scientifiche – non esiste. La sua classificazione giuridica permane, dunque, fittizia, ancorché condivisa. Del resto, condividere “valori” non implica affatto conoscenze comuni sulla realtà (interessante, in proposito, la ricostruzione di Francesca Zanuso, sulla scia del contributo di Enrico Berti in tema di “éndoxa” sui diritti umani, offerta in Neminem Laedere. Verità e persuasione nel dibattito bio-giuridico). Contraria, poi, alle citate “tre leggi della biologia”, oltre che all’epigenetica, è l’altrettanto condivisa opinione che distingue tra vita e persona, con buona pace del “valore assoluto” del “bene” vita. Senza andare troppo lontano, basterebbe sfogliare la nota sentenza della Corte costituzionale n. 27/1975, dove testualmente si legge che «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

Insomma, interpretazioni e argomentazioni possono operare anche contro ciò che la scienza ci dice sulla sopravvivenza, sicché, al loro cospetto, potrebbe trovare giustificazione il noto detto di Isaac Asimov: «la scienza accumula conoscenza più velocemente di quanto la società accumuli saggezza».

Che fare, allora, con l’emergenza climatica? La formula “climate endgame”, utilizzata dagli scienziati, è emblematica. I giocatori di scacchi sanno bene che cosa voglia dire: con l’emergenza climatica siamo transitati nella fase finale del gioco umano con la natura e a metterci in scacco matto è il sistema climatico con le sue “leggi”, ancorché noi continuiamo presuntuosamente a pensare che il gioco sia solo tra noi umani e dipenda sempre e solo da noi umani, dalla nostre leggi e dai nostri “valori”.

In Diritto e tempo, Gerhart Husserl ha osservato come, nel trapianto di idee da una sfera vitale a un’altra, si cela sempre un processo di “detemporalizzazione” (Entzeitung) dei loro contenuti, sradicati dal terreno spaziotemporale dell’esistenza per essere trasferiti in quello astratto della sola argomentazione per la decisione.

Nella storia umana, le peggiori “detemporalizzazioni” del diritto sono state consumate proprio allorquando le interpretazioni giuridiche si sono scontrate con inedite acquisizioni sul pianeta Terra (valgano, per tutti, la controversia sul “nuovo Mondo”, su cui J. Ginés de Sepulveda, Democrate secondo o della giusta causa della guerra contro gli Indios a cura di G. Patisso, e il processo a Galilei, su cui V. Frajese, Il processo a Galileo Galilei. Il falso e la sua prova).

Nel “climate endgame” del pianeta, non dovremmo dimenticarcelo e, come giuristi, metterci urgentemente a discutere della “Entzeitung” delle nostre “normali” operazioni di interpretazione e argomentazione.

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