L’ “Effetto Seneca” tra proporzionalità ambientale e art. 41 Cost.

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di Ines Bruno

Com’è noto, il principio di proporzionalità in materia ambientale è declinato come criterio di contemperamento del principio di precauzione.Consiste nel riconoscere, in capo ai decisori pubblici, il dovere di adottare soluzioni comunque idonee a tutelare l’ambiente, ma comportanti pur sempre il minor sacrificio possibile per gli interessi umani, prevalentemente economici, coinvolti dalla decisione (la formula ricorre costantemente nelle motivazioni della giurisprudenza soprattutto amministrativa)

Leggendo l’istruttivo libro dello scienziato Ugo Bardi The Seneca Effect: When Growth is Slow but Collapse is Rapid, molti dubbi maturano sull’effettiva utilità “ambientale” di questo costrutto. Il che diventa ancora più importante, ora che il riformato art. 41 della Costituzione dispone che qualsiasi iniziativa economica privata non possa svolgersi “in modo da recare danno … all’ambiente”.

Come perseguire il “minor sacrificio” possibile con il non “recare danno all’ambiente”? Dove si rintraccia la misura di “idoneità” di qui parla la giurisprudenza?

Sembra che proprio la risposta sbagliata a queste domande sia all’origine del c.d. “effetto Seneca” studiato da Bardi. La sua denominazione si deve alla nota formula latina di Seneca, contenuta nella lettera a Lucillo, così riportata: “La fortuna è di crescita lenta, ma la rovina è rapida”. Esso sta a significare che qualsiasi sistema complesso, di qualsiasi natura esso sia, può rapidamente crollare nonostante si presenti solido o addirittura in crescita e resistente a sollecitazioni esterne e, quindi, con strumenti e meccanismi “idonei” a contemperare tutte le esigenze esistenti al suo interno.

Il crollo, infatti, deriva pur sempre – quasi come in un paradosso – da fattori endogeni e più precisamente proprio da quelli che implementano il sistema, proiettandolo verso l’autoconservazione apparentemente infinita.

Tra questi fattori c’è anche il diritto, in quanto strumento di legittimazione delle pratiche di autoconservazione della convivenza. Qui Bardi riporta tutta una serie interessantissima di casi di rapido declino di società umane (antiche e moderne), apparentemente intangibili e solide nei loro apparati normativi e argomentativi “idonei” a chi ci viveva.

L’insegnamento che lo studio consente di trarre è molto istruttivo. Nessun sistema umano di convivenza è autosufficiente, anche quando si presenta in costante e crescente riproduzione dei suoi pilastri fondativi. E questo per la banale ragione, riflessa su tutta una serie di leggi di natura a partire dai principi della termodinamica: i sistemi umani, giuridici, economici, sociali, ingegneristici ecc…sono autoconservativi ma non indipendenti, nel senso di derivare comunque la loro possibilità di mantenimento effettivo nel tempo dalla compatibilità dei propri meccanismi conservativi con l’ambiente esterno e le sue dinamiche riproduttive o distruttive delle sue componenti.

Di conseguenza, nel momento in cui le dinamiche ambientali degenerano, se la lenta e rassicurante “fortuna” del sistema non cambia, la sua “rovina” si affaccerà rapidamente inaspettata.

In conclusione, la “idoneità”, per quando definita all’interno del sistema, come avviene nel diritto con la “idoneità” dei suoi apparati argomentativi di proporzionalità ambientale, resta sempre e comunque insufficiente.

Ecco allora che la combinazione tra precauzione, di fronte al rischio di “rovina” ambientale (invero sempre più noto a tutti noi), e proporzionalità, in nome del minor sacrificio possibile degli interessi umani, non appare più persuasiva e rassicurante. Scade in una sorta di finzione giuridica con cui salvaguardare il contingente, senza pensare al futuro anche immediato (visto che “la rovina è rapida”).

La circostanza che si parli ormai di “resilienza”, come criterio sostitutivo della proporzionalità, denota la diffusione della consapevolezza, nella cultura giuridica, di questo problema. La resilienza, infatti, richiede un’analisi prospettica e di scenario, che la proporzionalità ambientale non ha, appiattita com’è sulle aspettative contingenti di soddisfazione delle singole parti di volta in volta coinvolte, invece che sulle condizioni strutturali di persistenza delle tutele dell’intero sistema (Garmestani et al., Untapped capacity for resilience in environmental law).

La resilienza, inoltre, integra la precauzione, non per limitarla, come avvenuto con il ricorso alla proporzionalità, ma per testarla sul tempo medio-lungo di controllo dei rischi.

Il binomio “precauzione”–“resilienza” sarebbe molto più “resistente” all’ “effetto Seneca”, di quanto non successo fin ora, visto che quella proporzionalità ambientale per tutto si è rivelata “idonea”, fuorché per scongiurare il dilagante degrado ecosistemico e climatico.

Conoscere l’ “effetto Seneca”, per converso, istruirebbe costruttivamente interpreti e operatori del nuovo art. 41 Cost.

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