Il salvavita del “bilancio di carbonio” e il caso “Giudizio Universale”

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di Giorgio Trivi

Un recente articolo, pubblicato in questa testata da Luciana Cardelli, richiama giustamente l’attenzione sul tema del “bilancio di carbonio”, quale elemento determinante per la tutela dei diritti costituzionali.

Mi pare uno spunto meritevole di considerazione e approfondimento. In effetti, nella letteratura internazionale, la considerazione del “bilancio di carbonio”, nei processi di decisione politica sul clima, è ormai declinata come questione dei diritti. Si richiama, tra i tanti, lo studio The Paris Target, Human Rights, and IPCC Weaknesses: Legal Arguments in Favour of Smaller Carbon Budgets, interessante perché argomenta la rilevanza giuridica del “bilancio di carbonio” su due fronti:

– in nome del principio di precauzione, disciplinato dall’art. 3 n. 3 della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992, con cui si impone l’obbligo di ridurre al minimo il rischio di danni significativi, ovvero di adottare misure rapide e drastiche per la protezione del sistema climatico a garanzia degli ecosistemi e della salute umana;

– in ragione della naturale proiezione intertemporale dei diritti e delle libertà umane, non a caso colta dalla decisione della Corte Costituzionale Federale tedesca sull’incostituzionalità della legge sul clima, richiamata dalla Cardelli, l’unica in Europa a far riferimento al “bilancio di carbonio”.

In effetti, il “bilancio di carbonio” è una sorta di dispositivo salvavita, perché indica il limite insuperabile di emissioni di gas serra da concentrare (cumulare) in atmosfera, oltre il quale le conseguenze, di breve e lungo periodo, del cambiamento climatico (quindi non solo gli impatti immediati di eventi estremi) incideranno sempre più e sempre peggio sui determinanti della salute umana. Questo dato, tra l’altro, è implicitamente riconosciuto anche dallo Stato italiano, visto che il suo Piano Nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico (PNACC), fornisce una propria stima delle conseguenze negative dell’aumento della temperatura oltre i limiti fissati dall’Accordo di Parigi.

Questi limiti, per essere mantenuti, richiedono appunto di non oltrepassare il tetto dei gas serra ancora disponibili come emissioni antropogeniche: il “bilancio di carbonio”.

La conclusione attira l’attenzione su due ulteriori profili, nel citato intervento sul tema non richiamati. Il primo riguarda la comprensione più approfondita della natura di dispositivo salvavita del “bilancio di carbonio”.

Il secondo si riferisce alla causa italiana “Giudizio Universale”, ormai in dirittura d’arrivo nel primo grado di giudizio, dove gli attori hanno posto all’attenzione del Giudice la necessità di discutere l’argomento (il dato si ricava dalla lettura dell’Atto di citazione, messo a disposizione dai promotori del giudizio), che lo Stato invece non ha mai considerato.

Che cosa significa dispositivo salvavita?

Per rispondere si deve conoscere la c.d. “regola delle 1000 tonnellate” (cfr. Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy), elaborata dagli scienziati sulla base di una serie di articolate rilevazioni statistiche fondate sui metodi del c.d. “costo sociale del carbonio”; metodi diffusamente riconosciuti e utilizzati dagli Stati per il c.d. mercato degli scambi di emissioni e, più recentemente nella UE, anche per i Piani di Ripresa e Resilienza (cfr. Social cost of carbon: una metrica utile per valutare il Pnrr). Infatti, se il “costo sociale del carbonio” corrisponde al valore economico dei danni prodotti dagli eventi climatici avversi, derivanti dall’immissione in atmosfera di una tonnellata di gas serra, la “regola delle 1000 tonnellate” consente di calcolare quante tonnellate di carbonio, bruciate dall’azione umana, provochino la morte almeno di una persona (si dice “almeno”, perché il calcolo si riferisce a un individuo sano in salute e privo di condizioni personali di vulnerabilità e territoriali di specifica fragilità): 1000, per l’appunto.

È importante precisare che il nesso tra tonnellate emesse e morte descrive un rapporto di causalità complessa, ma pur sempre diretta (nel significato del funzionamento del sistema climatico: cfr. Pasini, Come si studiano le cause del cambiamento climatico recente?), dimostrabile, come accennato, attraverso articolate analisi statistiche, da non confondere con le mere correlazioni di variabili (sulla differenza, cfr. Correlazione o causalità?).

Tra l’altro, che la variabile determinante della destabilizzazione del sistema climatico risieda nella concentrazione di gas serra antropogenici, è dato talmente acquisito alla conoscenza scientifica, da risultare espressamente codificato dal Preambolo e dagli artt. 1 e 2 della citata Convenzione Quadro delle Nazioni Unite del 1992.

Solo i negazionisti si ostinano a (o fanno finta di) ignorarlo.

Quindi, grazie alla “regola delle 1000 tonnellate”, è possibile procedere a previsioni di vita e di morte. Per esempio, è possibile calcolare che, se il riscaldamento globale dovesse superare la media dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali (dall’Accordo di Parigi fissata come tetto massimo dell’aumento della temperatura accettabile per non avere catastrofi), l’azione antropica di ulteriori emissioni climalteranti diventerebbe responsabile (causativa) della morte di un miliardo di persone fino alla fine del secolo (ancora si v. Quantifying Global Greenhouse Gas Emissions in Human Deaths to Guide Energy Policy).

A questo punto, affinché questa follia non si verifichi, è necessario e ineludibile (pretendere) che tutti gli Stati, ossia i decisori sovrani sulle emissioni antropogeniche, rispettino il “bilancio di carbonio” rimanente.

Detto altrimenti, è doveroso che essi quantifichino il totale di emissioni di gas serra che intendono ancora consentire sul proprio territorio, rispetto alla limitata quantità disponibile a livello globale per la loro concentrazione in atmosfera, compatibile con il mantenimento dell’aumento concordato sulla temperatura. Se non lo fanno, agiscono irresponsabilmente, al pari di chi continua a spendere e spandere senza farsi i conti in tasca del limitato denaro a disposizione.

Risulterebbero palesemente negligenti. Con la differenza, però, che, nelle questioni climatiche, la negligenza non produce solo danni materiali, ma coinvolge vite umane, dunque violazioni di diritti.

In una prospettiva di responsabilità anche extraterritoriale sui diritti umani (cfr. Gentile, Climate litigation ed extraterritorialità dei diritti), non sembra poca cosa. Non lo è per la causa “Giudizio Universale”: l’unica ad aver discusso apertamente il problema del “bilancio di carbonio”. In essa, gli attori ne rivendicano il conteggio da parte dello Stato italiano a garanzia dei propri diritti, consapevoli della regressione temporale dei loro contenuti di effettività (sino alla morte), in caso di superamento del “bilancio di carbonio”.

Per tale motivo – è da ritenere – essi invocano pure il “diritto umano al clima stabile e sicuro” (rivendicazione presente già in altre cause climatiche: cfr. Pisanò, Diritto al clima); situazione intesa come pretesa a non regredire nell’esistenza e nella vita, lasciando imperversare negligentemente la “regola delle 1000 tonnellate” sul presente e sul futuro.

Se si pensa che l’Italia ha emesso, solo nel 2022, circa 418 milioni di tonnellate di gas serra (cfr. ItalyforClimate, Le emissioni di gas serra in Italia ancora non si riducono), si può facilmente conteggiare quanto la sua negligenza conduca a imputare, solo in un anno, un effetto di morte: 418.000 decessi, da sommare poi agli anni passati e soprattutto a quelli successivi, ove le emissioni antropogeniche dovessero non diminuire sino ad essere definitivamente neutralizzate entro il 2050, come prescrive l’Europa con il suo Green Deal (precisamente con il Regolamento europeo n. 1119 del 2021): possibilità realisticamente realizzabile solo ed esclusivamente agendo nei limiti del “bilancio di carbonio”.

Pertanto, discutere di questa quota massima di ulteriori emissioni, ancora tollerabili nonostante la loro natura letale, apre gli occhi sulla reale portata dell’inerzia degli Stati nel sottovalutare l’emergenza climatica.

E ridimensiona pure i discorsi sulla “libertà dei fini” nelle scelte statali sul cambiamento climatico, dato che nessun fine statale potrebbe mai tollerare, almeno in Italia e grazie al nostro sistema costituzionale («proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della vita», ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 223/1996), gli effetti di morte comprovati dalla “regola delle 1000 tonnellate”.

Si spera che l’imminente Conferenza delle Parti (COP 28 a Dubai) possa servire a discutere seriamente su questo problema nefasto e che vicende giudiziarie, come la causa “Giudizio Universale”, contribuiscano a sensibilizza l’opinione pubblica e gli operatori giuridici sulla realtà del cambiamento climatico come questione di tutela della vita.

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