Il “Giudizio universale” è inammissibile: quali prospettive per la giustizia climatica in Italia?

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di Giacomo Palombino 

La prima causa climatica italiana, nota come “Giudizio universale”, si è conclusa, almeno in primo grado, con un nulla di fatto: il Tribunale civile di Roma ha deciso, con sentenza dello scorso 26 febbraio, che la domanda sia da considerarsi inammissibile «per difetto assoluto di giurisdizione» (si veda il commento di Cardelli). Pur evidenziando «la oggettiva complessità e gravità della emergenza a carattere planetario provocata dal cambiamento climatico antropogenico», il Tribunale ha ritenuto di non poter accertare la responsabilità civile dello Stato, ex art. 2043 c.c. e, in subordine, 2051 cc., dinanzi a una domanda «diretta ad ottenere dal Giudice una pronuncia di condanna dello Stato legislatore e del governo ad un facere in una materia tradizionalmente riservata alla “politica”», ovvero «diretta in concreto a chiedere, quale petitum sostanziale, al giudice un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione».

Più nello specifico, gli attori ritenevano che lo Stato stesse venendo meno a precisi vincoli internazionali, in particolare discendenti dagli Accordi di Parigi, in materia di riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, e che ciò determinasse la violazione di una vera e propria obbligazione civilistica, così dando luogo a un danno extracontrattuale. Nell’interpretazione offerta dai ricorrenti, invero, sottrarsi a questi impegni avrebbe integrato la lesione «di una situazione giuridica differenziata, ovvero di un diritto al clima e di un diritto a conservare le condizioni di vivibilità per le generazioni future che trova fondamento, oltre che nella Costituzione che tutela i diritti inviolabili della persona umana (tra cui anche il diritto umano al clima stabile e sicuro), anche nel Trattato dell’Unione Europa (art.6) nella Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 52), nonché nelle disposizioni CEDU (artt. 2,8,14)».

Posta la questione in questi termini, tuttavia, il Tribunale ha ritenuto che il principio della separazione dei poteri fosse da considerarsi d’ostacolo alla possibilità di accertare la responsabilità dello Stato, e ciò in una duplice direzione: tanto contro una presunta inazione legislativa dello stesso, quanto avverso l’adozione di misure considerate insufficienti a combattere o prevenire le conseguenze del riscaldamento globale.

Sempre ammesso, ha lasciato intendere il giudice di Roma, che vi fosse una reale responsabilità da accertare. La sentenza, infatti, ha anche evidenziato come il Governo avesse in realtà fornito documentazione sufficiente a dimostrare l’impegno dello Stato nella sfida climatica, circostanza che, a causa dell’elevato livello tecnico-scientifico della questione, il Tribunale si è dichiarato impossibilitato a smentire. Sul punto, si legge nella sentenza che «le valutazioni prognostiche di parte attrice, in ordine alla inadeguatezza delle scelte politiche effettuate per la realizzazione degli obiettivi cui lo Stato si è auto vincolato, si basano su dati contestati da parte convenuta (…) e non verificabili in questa sede, non disponendo questo Giudice delle informazioni necessarie per l’accertamento della correttezza delle complesse decisioni prese dal Parlamento e dal Governo».

Ma se da un lato il giudice ha ritenuto inammissibile il ricorso, dall’altro pure ha evidenziato come le parti avrebbero forse dovuto prediligere altre sedi giurisdizionali per far valere la presunta responsabilità dello Stato. Tra questi, si fa riferimento ai rimedi offerti dal diritto dell’UE, ovvero artt. 263 e 340 TFUE, visto che gli attori denunciavano anche il mancato adempimento degli obiettivi assunti dall’Unione; nonché il ricorso alla giustizia amministrativa, considerato che «la questione attiene alla legittimità dell’atto amministrativo e, comunque, a comportamenti e omissioni riconducibili all’esercizio di poteri pubblici in materia di contrasto al cambiamento climatico antropogenico e quindi è afferente alla giurisdizione amministrativa generale di legittimità».

Ebbene, la sentenza del Tribunale di Roma offre il fianco a non poche critiche, soprattutto perché si discosta completamente dal contesto in cui la causa “Giudizio universale” si colloca, o almeno tenta di collocarsi. La climate change litigation, che sperimenta una casistica in continua crescita, sta prendendo piede nel panorama internazionale ed europeo (si contano già 1500 cause climatiche) proprio sulla base della medesima formula proposta dinanzi al giudice di Roma: responsabilità dello Stato nei confronti delle vittime, anche potenziali e future, per la mancata adozione di misure, o l’adozione di misure insufficienti, contro i cambiamenti climatici e i loro effetti nefasti.

In questa prospettiva, è allora singolare che il Tribunale pur menzioni vari precedenti giurisprudenziali nel considerato in diritto (d’altronde, è la domanda attorea a ricordarli), per poi però discostarsene in virtù del fatto che «si ispirano a modelli di azione differenti in ragione della diversità degli ordinamenti giuridici nazionali nell’ambito dei quali» si inquadrano. In altri termini, che altri giudici nazionali abbiano accolto ricorsi dello stesso tipo non significa che il giudice civile italiano possa fare lo stesso, a causa di un sistema giuridico distinto e che non consentirebbe di accertare, nella sede adita, la responsabilità dello Stato.

L’argomentazione seguita dal Tribunale di Roma, tuttavia, non può considerarsi qui del tutto condivisibile, e ciò per distinte ragioni. È significativo, per esempio, che la sentenza sottolinei in più punti che gli obblighi in materia climatica corrispondano a degli “auto vincoli” assunti dallo Stato, quasi a voler evidenziare, cioè, che la scelta di auto vincolarsi costituisca, in sé, prova della preoccupazione e dell’impegno del decisore politico sul punto. Ebbene, un’allusione di questo tipo, oltre a considerarsi irragionevole, risulta anche imprudente sotto alcuni profili. Anzitutto, sarebbe utile a giustificare una assoluta e generalizzata irresponsabilità dello Stato per violazione dei diritti soggettivi, avendosi sempre riguardo, almeno astrattamente, ad “auto vincoli” quando si tratta, in generale, di regole giuridicamente rilevanti, che ci si riferisca al rispetto di leggi ordinarie (che tra l’altro modulano, a seconda dei casi, il rispetto dei vincoli assunti a livello sovranazionale e internazionale) o addirittura all’attuazione della Costituzione, che nasce principalmente come un limite al potere. Tra l’altro, anche volendoli considerare «auto vincoli», il relativo rispetto andrebbe comunque assicurato e rinnovato nel corso del tempo, proprio considerato che la volontà politica che ha deciso di assumerli, in un contesto democratico, è soggetta ad inevitabili mutazioni (d’altronde, gli Accordi di Parigi risalgono al 2015, solo per fare un esempio). E ciò soprattutto perché tali vincoli internazionali, come il giudice non evidenzia, acquistano una piena dimensione costituzionale, e dunque hanno natura obbligatoria, proprio per il legislatore, laddove «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» (art. 117, co. 1, Cost.).

L’altro spunto argomentativo, che pure risulta poco condivisibile, fa riferimento alla extraterritorialità delle conseguenze del riscaldamento globale e dunque anche delle misure dirette a ridurlo. La sentenza sottolinea, infatti, che «trattandosi di un problema provocato da una molteplicità di fattori che coinvolgono il pianeta, il contrasto ai cambiamenti climatici richiede un impegno unitario degli Stati che sul tema si sono “autoregolamentati”».

Di certo non vi è dubbio che un fenomeno globale richieda risposte globali, o quantomeno condivise e attuate da quanti più attori possibili; tuttavia, in attesa di conoscere l’esito di varie opinioni consultive pendenti dinanzi a distinte Corti internazionali e dei ricorsi promossi davanti alla Corte EDU, l’adempimento degli obiettivi climatici deve essere necessariamente monitorato sul piano interno. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di lasciare completamente sprovviste di tutela le relative pretese nel solo ordinamento nazionale, con una totale disparità di trattamento, tra l’altro, rispetto agli altri paesi membri dell’Unione: e, si badi bene, nel caso di specie non si tratta esclusivamente della pretesa di vedere condannato lo Stato italiano, bensì anche quella di vedere (“meramente”) instaurato lo stesso giudizio. Il Tribunale di Roma, infatti, ha sostanzialmente deciso di non decidere.  

La domanda, allora, è se il giudice avrebbe potuto esaminare la questione nel merito, e cioè valutare l’appropriatezza delle misure adottate dallo Stato o, al contrario, evidenziarne l’incompatibilità con i criteri di riduzione delle emissioni stabiliti a livello internazionale e sovranazionale. A questa domanda non può che rispondersi in maniera assolutamente affermativa. In primo luogo, si presume che nessuna delle Corti che si sono già espresse sul punto abbia, di per sé, competenze scientifiche tali da accertare l’adempimento degli obblighi climatici; e la stessa considerazione sembra potersi riproporre anche rispetto al giudice amministrativo, che il Tribunale, invece, ritiene competente a decidere nel caso di specie. La conoscenza scientifica richiesta, allora, non è altro che quella corrispondente al principio della best available science, ovvero la scienza che ispira il medesimo contenuto dei vincoli internazionali in materia climatica e sviluppata, dal 1988, dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito presso le Nazioni Unite.

Tra l’altro, se l’elevato livello scientifico fosse davvero d’ostacolo all’intervento giurisdizionale, non si conoscerebbe giurisprudenza non solo in materia ambientale, ma anche in ulteriori contesti particolarmente sensibili alla tutela dei diritti, in primis quello della salute, strettamente collegato alla questione climatica. Solo per fare degli esempi, e tralasciando le numerose sentenze della giustizia costituzionale e di legittimità su questioni di questo tipo, si ricordi anche l’impegno dei giudici ordinari dinanzi alla disinformazione al tempo della pandemia, laddove erano note ministeriali, formulate sulla base delle raccomandazioni dell’OMS, ad indicare la best available science, normalmente rispettata (tra le altre, si vedano l’ordinanza del Tribunale di Roma n. 41450/2020 e le ordinanze del Tribunale di Milano nn. 13489/2021, 20390/2021 e 26248/2021). Infine, sempre su questo punto, anche qualora fosse mancata qualsiasi informazione idonea ad accompagnare la decisione del giudice, non si dimentichi che, in tutti i gradi e livelli di giudizio, può sempre ricorrersi, in varia forma, all’ausilio di esperti.

Bisogna ora rilevare, tuttavia, come il tentativo di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni sinora commentate potrebbe scontrarsi contro la colonna portante, per così dire, della decisione del Tribunale, ovvero l’ostacolo dettato dal principio della separazione dei poteri. Tuttavia, anche rispetto a questo passaggio, il giudice fa apparire come inequivocabile una posizione assolutamente imprecisa, delineata, tra l’altro, in modo del tutto assertivo. In primo luogo, la sentenza non fa alcun riferimento alle fonti, europee e internazionali, che definiscono i termini dell’accesso alla giustizia, in generale, in presenza della presunta lesione di un diritto fondamentale, e dell’accesso alla giustizia ambientale, nello specifico. Rispetto a questa seconda ipotesi, ci si riferisce alla Convenzione di Aarhus, ratificata dall’Italia nel 2001, volta a garantire (in particolare, art. 9) l’accesso alla giustizia ambientale quando si verifichi la violazione di un «interesse sufficiente» o di un diritto. La Convenzione non è mai menzionata nella sentenza.

In secondo luogo, quest’ultima non pare approfondire sufficientemente nemmeno la giurisprudenza costituzionale utile, nel caso di specie, a definire i limiti della giurisdizione di fronte al principio della separazione tra i poteri dello Stato. Infatti, la tesi proposta, volta a garantire la discrezionalità del decisore politico rispetto all’azione climatica, dovrebbe venir meno dinanzi alla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, tra cui, tra l’altro, il diritto alla salute, l’unico espressamente definito «fondamentale» dal Costituente (art. 32 Cost.). Se così non fosse, paradossalmente, bisognerebbe rimettere in discussione la tenuta dello Stato di diritto ogniqualvolta un’omissione legislativa, causa della violazione di diritti, non possa essere nemmeno “giudicata” da un Tribunale in virtù della sua corrispondenza a un’opzione politica; opzione equivalente, si badi bene, alla scelta di non proteggere un diritto nonostante l’adesione a vincoli internazionali da considerarsi obbligatori ai sensi dell’art. 117 Cost., e che, imponendo allo Stato l’adozione di determinate misure, ne circoscrivono implicitamente la discrezionalità.

Ciò è inaccettabile da un punto di vista costituzionale, anche perché il giudice non esclude affatto, anzi conferma, la gravità del fenomeno climatico e le sue conseguenze sul piano della tutela dei diritti. Nonostante ciò, il Tribunale non solo afferma di non poter instaurare la giurisdizione, ma lo fa dopo tre anni, altra circostanza peculiare dato che nel considerato in diritto si parla espressamente di un’emergenza e si fa più volte riferimento alla natura intergenerazionale della problematica esaminata.

 Il lasso di tempo che occupa la vicenda (2021-2024) è significativo anche per una ragione ulteriore. Si ricordi, infatti, che nel febbraio del 2022 è stata approvata la legge di revisione costituzionale che ha modificato gli artt. 9 e 41 Cost.: l’ambiente e gli interessi delle generazioni future compongono ormai l’architettura dei principi fondamentali, divenendo a tutti gli effetti parametri di legittimità costituzionale, nonché limite all’esercizio della libertà di iniziativa economica. Ora, non vi è dubbio che nell’ordinamento italiano il giudizio di costituzionalità sia accentrato e che gli individui non possano accedere allo stesso direttamente (possibilità invece prevista in altri ordinamenti e che, come nella causa Neubauer c. Germania, ha facilitato l’instaurazione del contenzioso climatico). Tutto ciò non esclude, però, che anche il giudice ordinario debba farsi interprete e garante della Carta costituzionale. D’altronde, la natura incidentale del ricorso alla Consulta presuppone una prima interpretazione della Legge fondamentale da parte del giudice a quo, il cui dubbio di incostituzionalità discende proprio dalla lettura della Carta; a conferma di ciò, altrimenti, non avrebbe senso l’impostazione, affermata dalla medesima giurisprudenza costituzionale, secondo cui prima di ricorrere alla Consulta il giudice debba preferire, tra tutte le interpretazioni possibili della norma che è chiamato ad applicare, quella costituzionalmente orientata.

Tuttavia, non ammettendo la giurisdizione, il Tribunale non si è concesso nemmeno il beneficio del dubbio, nella prospettiva, poi, di ricorrere alla Consulta in via incidentale. Insomma, pur volendo ammettere che il giudice civile di Roma non fosse competente a far valere i nuovi parametri costituzionali (nonché la stessa obbligatorietà dei vincoli internazionali ex art. 117 Cost.), una volta ammessa la domanda, ci sarebbe stata ogni ragione per sollevare, quantomeno, dubbio di legittimità e interrogare la Consulta. Si spera, allora, che il mancato richiamo agli artt. 9 e 41 Cost. non sia altro che una svista del giudice romano, altrimenti non potrebbe che darsi ragione a chi afferma la «miseria pratica» della modifica approvata nel 2022.

In conclusione, si è del tutto consapevoli che la sentenza dello scorso febbraio sia solo la prima tappa di una causa che andrà avanti e a cui, con ogni certezza, se ne aggiungeranno altre. Nel frattempo, si è dell’opinione che discuterne e cercare di approfondirne il dibattitto, anche costituzionalistico, abbia quantomeno l’utilità di evidenziare l’urgenza di una questione che vede l’ordinamento italiano come uno dei fanalini di coda nell’ambito dell’Unione europea: dal punto di vista giurisprudenziale, e dunque della tutela dei diritti, continuando a non apportare nessun contributo alla costruzione di un modello di giustizia climatica; dal punto di vista legislativo, rimanendo l’unico grande Paese europeo a non aver adottato una legge quadro sul clima. Dinanzi a una sfida di questa portata, la strada da percorrere sembra ancora lunga. Si spera che, a queste temperature, non si spezzi il fiato.

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