Fallacie del giudice e oggettività matematica in “Giudizio Universale”

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di Alberto T. Cohen

Sono anche io un fisico e mi occupo di certificazioni sul carbonio e danni non significativi nelle attività emissive, ambito in cui ci si deve aggiornare e confrontare quotidianamente con la letteratura giuridica sull’emergenza climatica.

Non posso che condividere il dibattito in corso su questa testata intorno ai contenuti sorprendenti della sentenza “Giudizio Universale”. È vero: se non si conoscono la fisica e la matematica (Stavenato, Se un fisico legge la sentenza “Giudizio Universale), e soprattutto la termodinamica (Bruno, I giudici possono ignorare la termodinamica?), a partire dal suo secondo principio, si possono leggere l’UNFCCC, l’Accordo di Parigi, gli atti e le prove di un contenzioso climatico, senza, però, comprenderne alcunché.

Quello che è conclamato come “libero convincimento” del giudice, nel suo ruolo di “peritus peritorum”, precipita inesorabilmente nella trappola cognitiva, nel Bias dell’errore di fatto (non si riesce a inquadrare in che cosa consista il fatto dedotto in giudizio, come già osservato dai citati Bruno e Stavenato), del travisamento delle prove (si leggono documenti, senza comprenderli sul piano scientifico, come richiamato sempre da Stavenato), dell’errore di diritto (si applicano disposizioni giuridiche, che presuppongono cognizione delle leggi naturali della fisica, ricorrendo a proprie euristiche contro natura, prima ancora che antiscientifiche, come ricordato, in questa sede, da Cardelli, Palombino, e sempre dallo stesso citato Stavenato).

Quindi, appare incontestabile quanto già osservato e criticato della sentenza “Giudizio Universale”. Per dimostrarlo ulteriormente, si possono aggiungere altri dettagli importanti per i lettori, preoccupati dell’emergenza climatica.

Nella sua motivazione, la giudice sostiene che:

  1. non si possa costringere lo Stato, per via giudiziale, ad abbattere le proprie emissioni di gas serra, in quanto siffatta condotta consisterebbe in un “indirizzo politico” traducibile solo in atti normativi o amministrativi dello Stato legislatore o del Governo;
  2. non si possa imporre allo Stato di attenersi alle indicazioni e predizioni scientifiche, sempre per la medesima ragione;
  3. in ogni caso, ci si deve attenere ai dati ISPRA, in quanto informazioni previste dalla legge come uniche determinanti per le decisioni anche del giudice.

Di questi tre passaggi argomentativi, è corretto solo il terzo, anche se poi la giudice lo utilizza con le sue euristiche contro natura e antiscientifiche, come si vedrà a breve. I primi due, invece, sono affetti da una classica “fallacia dell’evidenza soppressa”, in quanto argomentano in modo apparentemente logico, nell’omissione di premesse – fattuali, scientifiche e normative – determinanti per l’ordito che si vuole imporre (cfr. Calemi, Paoletti, Cattive argomentazioni: come riconoscerle). Infatti, a supporto delle prime due apodittiche affermazioni, la giudice non indica alcuna disposizione giuridica di fondamento della sua tesi: non la Costituzione, né il Codice civile, né i Trattati europei, né la CEDU, neppure l’UNFCCC o l’Accordo di Parigi. Rinuncia pure a cimentarsi, anche per accenni, con l’art. 28 della Costituzione italiana. Evoca a volo d’uccello qualche fonte, ma senza particolari approfondimenti ermeneutici.

Al contrario, si appiglia, con non minore genericità, al principio della separazione dei poteri, e all’esistenza di una «materia tradizionalmente [sic] riservata alla “politica”»

Insomma, la giudice si appella alla “tradizione”. In questo modo, esso opta per una seconda evidente fallacia: quella nota come “argumentum ad antiquitatem”. Del resto, in nome di questa “tradizione”, la giudice nega pure che la vita umana sia interessata all’emergenza climatica, visto che conclude per il difetto assoluto di giurisdizione.

Questo precipitare nelle fallacie è l’effetto più evidente, peggiore e deleterio, dell’ignoranza della fisica e varrebbe la pena, a dimostrazione, attingere a piene mani dall’affascinante libro di Percy Williams Bridgman, La logica della fisica moderna.

Poiché non è questa la sede per farlo, ci si limita a osservare quanto segue.

Il difetto assoluto di giurisdizione, come può riscontrare su internet anche un non giurista come me, insorge solo ed esclusivamente per «oggettiva insussistenza» della «situazione giuridica» (inclusa quindi la vita) di cui «si è chiesta la tutela» (cfr. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario, Principi di diritto processuale civile. Gli orientamenti delle Sezioni civili, Vol. III, 2021, p. 833). Attenzione: “oggettiva insussistenza”, non “tradizionale” insussistenza. Proprio per il fatto di non derivare da un’invocazione della “tradizione” ma dell’ “oggettività” della “situazione”, la stessa Corte di cassazione constata che «il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione ha, ormai, una scarsissima incidenza statistica» (ibidem).

Che cosa significa? È questo il primo snodo che sorprende i fisici nella lettura della sentenza “Giudizio Universale”: che cos’è l’ “oggettività” nelle questioni climatiche? È la “tradizione” o la “conoscenza”?

Per l’Italia, la risposta è stata fornita dallo Stato sin dal 1992, aderendo all’UNFCCC, ed è stata ulteriormente ribadita con l’adesione italiana anche all’Accordo di Parigi del 2015: è la conoscenza scientifica dei fatti climatici, senza la quale non c’è possibilità alcuna di affermare qualsivoglia «oggettiva insussistenza» di qualsiasi elemento riguardante il cambiamento climatico, inclusa la vita umana che «situazione giuridica» di certo è. Nell’UNFCCC, il richiamo alla conoscenza scientifica ricorre 21 volte; nell’Accordo di Parigi, 11 volte, con la puntualizzazione inequivoca che il metodo per garantire una «risposta efficace e progressiva all’urgente minaccia dei cambiamenti climatici» è quello di basarsi «sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili».

Quindi, senza metodo scientifico non c’è “oggettività” e «risposta efficace» nelle decisioni sulle questioni climatica. Lo dice lo Stato italiano che aderisce a Parigi.

La giudice non ci fa caso e va per la sua strada, invocando l’ “indirizzo politico” tradotto in “atti” non sindacabili.

Ma che cosa significa? Per fortuna c’è la Presidente della Corte di cassazione, Margherita Cassano, a darci una mano. Nel corso dell’Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2024 (Relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2023, p. 220), affrontando esplicitamente il tema degli “atti” e dell’ “indirizzo politico”, la Presidente ha puntualizzato che «il difetto assoluto di giurisdizione fotografa il ritrarsi della giurisdizione da un atto» allorquando quell’atto risulti:

– «non perimetrato da una disciplina di legge»,

– «improduttivo di effetti nella sfera giuridica del beneficiario e di soggetti terzi»,

«disposto sulla base di scelte libere e autonome da parte di un organo investito di funzioni di indirizzo politico».

Ora, qualsiasi fisico domanderebbe alla giudice di “Giudizio Universale”: il decidere in modo «efficace» sull’«urgente minaccia dei cambiamenti climatici» risulta forse “oggettivamente” (ossia in base alle «migliori conoscenze scientifiche disponibili» richieste dall’Accordo di Parigi), «non perimetrato da una disciplina di legge», – «improduttivo di effetti nella sfera giuridica del beneficiario e di soggetti terzi», o «disposto sulla base di scelte libere e autonome da parte di un organo investito di funzioni di indirizzo politico»? Per la giudice la risposta è: sì, ma in ragione dell’ “argumentum ad antiquitatem” che, com’è risaputo, è per definizione antiscientifico, come insegna l’emblematico processo alla scienza di Galileo Galilei (Ferrari Bravo, Ferrone, Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana).

La giudice, però, sbaglia clamorosamente. Infatti:

  1. l’atto, per rendere «efficace» la risposta sull’«urgente minaccia dei cambiamenti climatici», è esplicitamente «perimetrato» da fonti normative giuridiche (UNFCCC, Accordo di Parigi e Regolamenti europei);
  2. quell’atto non è affatto «improduttivo di effetti nella sfera giuridica del beneficiario e di soggetti terzi», dato che deve operare «a beneficio della presente e delle future generazioni» (artt. 2 e 3 UNFCCC), promuovendo i diritti umani ed «evitare perdite e danni» nel presente e nel futuro (Preambolo e artt. 2, 4 e 8 Accordo di Parigi), e non nuocendo ai diritti fondamentali e alla salute delle persone nel presente e nel futuro (Regolamenti UE nn. 852/2020 e 1119/2021);
  3. e quell’atto non è neppure «disposto sulla base di scelte libere e autonome da parte di un organo investito di funzioni di indirizzo politico», in quanto esso non solo si deve basare «sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili», ma soprattutto deve (per legge non per “tradizione”) consistere nella misurazione quantitativa della mitigazione climatica ovvero nella stima dell’abbattimento delle emissioni,
  4. tant’è che questo abbattimento è a sua volta «perimetrato» (dall’UNFCCC, dall’Accordo di Parigi e dai Regolamenti europei) a quattro limiti, rispettivamente riguardanti l’obiettivo (art. 2 UNFCCC e art. 2 Accordo di Parigi), i tempi (2030, 2050, 2100, come confermato anche dal Glasgow Climate Pact del 2021), le soglie quantitative di pericolo da non superare (i limiti di aumento della temperatura: cfr. qui Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra giudice e vincoli normativi: sulla soglia accettabile del pericolo), la funzione (evitare perdite e danni a beneficio della presente e delle future generazioni).

Insomma, si tratta di un “atto” «perimetrato» su quattro fronti ben chiari ed espliciti: leggi; migliori conoscenze scientifiche; produzione di effetti benefici per la presente e le future generazioni e promozione dei diritti; non superamento dei quattro limiti dell’obiettivo, dei tempi, della scoglia del pericolo e della funzione di evitare perdite e danni.

Questi “perimetri” legali operano ab externo sul potere (cfr. Cunha Verciano, La discrezionalità del potere nella lotta al cambiamento climatico). Li si può anche surrealisticamente considerare non vincolanti, ma sarebbe, questo, un argomento in buona fede? Si direbbe proprio di no (cfr. Carducci, La buona fede “climatica” dopo la COP28). Pertanto, non possono e non devono essere pretermessi, come ha preteso fare la giudice.

A questo punto si arriva alle ultime quattro domande, che interessano il fisico.

Ecco le prime tre.

Che cosa succede se «le migliori conoscenze scientifiche disponibili», richieste dall’Accordo di Parigi, ci dicono che si sta superando la soglia di pericolo “perimetrata” dalle leggi, ci confermano che stanno saltando tutti gli obiettivi indicati da quelle norme giuridiche e soprattutto allertano sul fatto che le perdite e i danni, invece di essere evitati a beneficio della presente e delle future generazioni, sono in aumento?

Che cosa succede se tutto questo è riconosciuto persino dagli Stati, Italia inclusa, nel loro “bilancio periodico” sulla “efficacia” delle risposte all’emergenza climatica (il Global Stocktake, su cui si v. Cardelli, Se gli Stati riconoscono di sbagliare sul clima) e nelle COP?

Che cosa succede se tutto questo lo dice pure l’ISPRA?

Per la giudice, non succede nulla perché si tratta di «materia tradizionalmente riservata alla “politica”». Ecco allora la quarta e ultima domanda? Ma qual è questa «materia» per “tradizione” «riservata alla “politica”», visto che l’atto è chiaramente «perimetrato» dalle fonti legali nei modi e contenuti sopra sintetizzati?

È l’ISPRA, smentendo la giudice, a indicare la risposta. Infatti:

  1. è proprio l’ISPRA a dirci che l’atto, da compiere per contrastare l’emergenza climatica, non è “politico” ma matematico ovvero una stima quantitativa dell’abbattimento delle emissioni, necessaria per restare dentro la soglia quantitativa di pericolo, fissata dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi;
  2. è sempre l’ISPRA a certificare l’esistenza di perdite e danni, in corso sul territorio italiano, per carenze di quella stima matematica;
  3. è infine l’ISPRA a dichiarare che la stima, ad oggi calcolata, non rende «efficace» la risposta italiana sull’«urgente minaccia dei cambiamenti climatici».

Se se ne vuole avere conferma, basta leggere l’ISPRA National Inventory Report 2023–Italian Greenhouse Gas Inventory 1990-2021 e tutti gli altri Report prodotti sul fronte delle perdite e danni da cambiamento climatico in Italia.

E non è ancora tutto. Sempre l’ISPRA, nel comunicato stampa del 23 aprile 2023, ha spiegato che, «secondo le stime» delle emissioni in riduzione in Italia, risultano «poco promettenti gli scenari [di mitigazione] al 2030» dichiarando «fondamentale quindi invertire il trend se vogliamo rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni» (ovvero i limiti “perimetrati” dalle fonti giuridiche citate).

È scritto nero su bianco. È pubblico. La matematica delle emissioni ci avverte che stiamo andando male.

La giudice non se ne accorge, ancorata com’è alla “tradizione” sulla misteriosa “materia riservata” alla “politica”.

ISPRA, invece, ci dice che la questione è proprio matematica, di «stime» necessarie a rimanere dentro la soglia di pericolo fissata dall’Accordo di Parigi.

A questo punto, dovrebbe essere abbastaza chiaro tutto: è la matematica (la «stima» di cui parla l’ISPRA) a salvarci dall’emergenza climatica, perché è l’unico metodo esistente per risultare “efficaci” nell’evitare perdite e danni.

Come la matematica consente di evitare danni ai risparmiatori, del presente e del futuro, permettendo di calcolare se le banche quantifichino i loro tassi di interesse nel rispetto alle soglie fissate per legge, così la «stima» matematica delle emissioni statali, rispetto alla soglia quantitativa del pericolo stabilita ex lege (l’art. 2 dell’Accordo di Parigi), consente di dimostrare l’efficacia dell’abbattimento delle emissioni, a beneficio della presente e delle future generazioni (il citato Stavenato lo rappresenta molto bene, spiegando il Carbon Budget).

Insomma, la matematica è l’unica “oggettività” possibile per far rispettare il neminem laedere, ogni volta che legge fissa soglie di pericolo da non superare: può essere il tasso di interesse per non depredare i risparmiatori; può essere la soglia della temperatura, per non precipitare tutti nel baratro del peggioramento catastrofico dell’intero sistema climatico.

Che cosa c’è di «scelte libere e autonome» in tutto questo? Nulla. La scansione logica che emerge dalle fonti che impongono la matematica per la soluzione dell’emergenza climatica è banale: in primo luogo, si effettuano i calcoli per stare dentro tutti i “perimetri” indicati (i quattro fronti, sopra sommariamente descritti), e solo dopo si effettuano «scelte libere e autonome».

Sostenere che si debba fare l’inverso (ossia «scelte libere e autonome» dalla matematica), non solo è antiscientifico, non solo è una fallacia dell’ “argumentum ad antiquitatem” (l’emergenza climatica prima non c’era, sicché non c’era necessità dei calcoli per salvarsi), non solo significa ignorare la fisica; soprattutto vorrebbe dire vocarsi al suicidio collettivo. Quale “tradizione” accetterebbe mai una simile follia?

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