di Luciana Cardelli
Un aspetto particolarmente importante, che emerge dalle recenti decisioni “climatiche” della CEDU (su cui, si v. La sentenza CEDU sui diritti climatici: tre commenti), riguarda il rapporto tra funzione di indirizzo politico e quantificazione del Carbon Budget.
In sintesi, dalle decisioni della Corte di Strasburgo, in particolar modo dalla Sentenza “Verein KlimaSeniorinnen” (nei §§ 269-272, 323-324, 550, 569-572), si desumono sei passaggi importantissimi:
- la necessaria identificazione del Carbon Budget di un singolo Stato costituisce limite esterno alla sovranità dello Stato e alla discrezionalità politica dei suoi organi;
- l’esistenza di questo limite, fondato sul contenuto degli accordi internazionali sottoscritti dallo Stato, legittima il diritto di accesso al giudice nazionale da parte dei residenti di uno Stato, ai fini della tutela dei diritti umani, in primis quello ex art. 8 CEDU (c.d. “rispetto della vita privata e familiare”);
- tale tutela giudiziale è attivabile anche nel caso in cui i suddetti diritti risultino minacciati, e non solo già lesi nei danni, dall’omessa o insufficiente quantificazione del Carbon Budget nazionale, e questo
- sia perché vanno comunque rispettati i ristrettissimi tempi ancora a disposizione per non superare la soglia di pericolo nel controllo dell’emergenza climatica, mentre è già in atto la destabilizzazione del sistema climatico (c.d. bad-to-worst scenario) che minaccia tutti;
- sia perché proprio la soglia di pericolo è stata concordata dagli Stati nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015 (cfr., in merito, M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra giudice e vincoli normativi: sulla soglia accettabile del pericolo, e Id., La discrezionalità del potere nella lotta al cambiamento climatico), sicché essa soglia non può non essere interpretata in buona fede in funzione dei diritti umani nel perseguimento dell’obiettivo finale dell’art. 2 dell’UNFCCC (sulla buona fede “climatica” nel senso della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, utilizzata dalla Corte di Strasburgo, cfr. M. Carducci, La buona fede “climatica” dopo la COP28);
- tant’è che anche il conteggio “salva vita” delle emissioni antropogeniche rimanenti globali (c.d. Carbon Budget residuo) è stato quantificato dagli Stati in sede di IPCC, con l’ultimo Sommario per i decisori politici 2023.
Che cosa sia il Carbon Budget è stato spiegato molto bene in queste stesse pagine (in particolare, tra gli altri, si v. G. Trivi, Il salvavita del “bilancio di carbonio” e il caso “Giudizio Universale”, e N. Stavenato, Se un fisico legge la sentenza “Giudizio Universale”), sintetizzandone la funzione di conteggio appunto “salva vita” (così il cit. G. Trivi), in quanto parametrato al rispetto delle soglie di pericolo che servono a evitare il peggio (i c.d. Tipping Point) e, dunque, a salvare tutte le forme di vita presenti e future della Terra (compresa la vita umana).
Pertanto, non rientra affatto nel margine di apprezzamento degli Stati la scelta di disporre a proprio piacimento sull’an, il quantum e il quomodo del Carbon Budget. Com’è noto, quest’ultima è stata, invece, la tesi del Tribunale civile di Roma nel caso “Giudizio Universale”. Secondo la visione italiana, le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico rientrerebbero nella sfera di attribuzione degli organi politici. Alla luce proprio dei casi “climatici” CEDU, una conclusione del genere – già di per sé incostituzionale (cfr. R. Cecchi, Il Giudizio (o silenzio) Universale: una sentenza che non farà la storia) – è riconosciuta ufficialmente come scientificamente errata, perché non corrispondente a quanto rilevato e acconsentito dagli Stati nell’IPCC con il cit. Sommario per i decisori politici 2023 da utilizzare in buona fece, e illegittima, per “interposta” smentita della CEDU (per il testo della Sentenza romana con un commento sembrerebbe adesivo, ma anch’esso scientificamente infondato – proprio perché ignaro della questione “salvavita” del Carbon Budget – si v. F. Vanetti, I cambiamenti climatici tra cause civili, scelte politiche e giurisdizione amministrativa).
Nell’emergenza climatica, che è un’emergenza della salute del pianeta e dei suoi esseri viventi (cfr., tra i più recenti, il 2024 Europe Report Lancet Countdown on Health and Climate Change), quel margine di apprezzamento statale, ovvero il c.d. “confine mobile” tra misure ammesse (in quanto interne alla sovranità statale) e misure non ammesse (in quanto eccedenti tale margine e quindi costituenti violazioni della Convenzione) (F. Donati, P. Milazzo, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo), è subordinato alla quantità di emissioni di gas serra antropogenici ancora disponibili rispetto alle soglie di temperatura, di cui all’art. 2 Accordo di Parigi (il cit. c.d. “Carbon Budget Globale” residuo), da assumere obbligatoriamente come base di calcolo delle emissioni climalteranti antropogeniche di ciascuno Stato, al fine di adempiere in buona fede alla tutela dei diritti.
Siffatta struttura argomentativa della Corte di Strasburgo ricorda molto da vicino l’evoluzione italiana in tema dell’indirizzo politico e atto politico, da declinare nella loro duplice dimensione “endogena” (attinente al potere) ed “esogena” (attinente ai diritti) (cfr. S. Agosta, Le ragioni della politica ed i limiti imposti dalla Costituzione): determinante spartiacque tra concezioni “fasciste” e concezioni “costituzionali” dell’autonomia della politica rispetto ai diritti (C. Tripodina, L’ “indirizzo politico” nella dottrina costituzionale al tempo del fascismo).
Del resto, se è vero che la Corte costituzionale italiana ha fornito una propria “ridefinizione” del margine di apprezzamento elaborato dalla Corte EDU (cfr., in particolare, Corte cost. n. 264/2012), è pur vero che lo ha fatto solo in nome degli eventuali effetti sistemici negativi dei contenuti CEDU sui diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione, non certo a pretestuosa salvaguardia dell’insindacabilità dei poteri italiani.
E, nell’emergenza climatica, l’unico strumento pratico, di contabilità emissiva, utile a salvare tutte le persone – non alcune – e tutti i loro diritti fondamentali – non alcuni – è offerto dal conteggio del Carbon Budget nazionale, proprio come constatato dalla Corte europea dei diritti umani.
Ecco, allora, che le categorie italiane di “indirizzo politico” e “atto politico” non possono non risultare coinvolte, nelle implicazioni pratiche del loro utilizzo soprattutto in sede giudiziale, dalle importanti conclusioni rassegnate nei casi “climatici” CEDU.
Quelle conclusioni non ci dicono semplicemente che il cambiamento climatico – come processo – e l’emergenza climatica – come situazione di pericolo a effetti irreversibili (sulla distinzione si v. il cit. Stavenato) – identificano un problema di tutela dei diritti umani (come i più hanno commentato: cfr. E. Guarna Assanti, Verein KlimaSeniorinnen and others v. Switzerland: una conferma del ruolo fondamentale dei diritti umani per la tutela del clima).
Esse chiariscono, una volta per tutte, altri due aspetti fondamentali:
– che il calcolo del Carbon Budget nazionale – o misura “salvavita” di analogo conteggio – sostanzia l’obbligo di protezione dello Stato nei riguardi dei suoi residenti e i loro diritti;
– che, senza calcolo del Carbon Budget nazionale, qualsiasi riduzione delle emissioni (qualsiasi mitigazione climatica) non opera in buona fede nei termini della Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei trattati per la tutela dei diritti umani.
Per l’Italia è una conclusione scomoda, visto che l’ultimo Atto di indirizzo del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (adottato con dm n. 7/2024), pur riconoscendo l’emergenza climatica (ivi rubricata col termine “crisi climatica”) e pur sostenendo di voler promuovere il contributo italiano addirittura al mantenimento della soglia migliore di accettazione del pericolo dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi (quella di un aumento della temperatura media non oltre +1,5*C), persiste clamorosamente nel tacere sul Carbon Budget nazionale. Nella giurisprudenza italiana è discusso se gli atti ministeriali di indirizzo siano autonomamente sindacabili (cfr. Atto di indirizzo ministeriale e giudice amministrativo). Tuttavia, è altrettanto vero che essi possono essere giudizialmente censurati o disapplicati, allorquando presentino profili di “travisamento dei fatti” e “manifesta illogicità” (cfr., tra gli ultimi, Cons Stato Sez. VI, 1245/2024).
Ora, grazie alle Sentenze “climatiche” CEDU, sappiamo finalmente tutti che l’omessa o insufficiente quantificazione del Carbon Budget nazionale, piuttosto che concretizzare un “atto politico” insindacabile, consuma un “travisamento dei fatti” (il travisamento di pretendere di contrastare la “tragedia temporale” – così BIS, The Green Swan – dell’emergenza climatica, senza misure di conteggio “salvavita”) e “manifesta illogicità” (sub specie di violazione della buona fede nel perseguire gli obiettivi concordati nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e nell’art. 2 UNFCCC, ignorando i metodi di contabilità indicati dall’IPCC e quantitativamente concordati con gli Stati nel citato ultimo Sommario per i decisori politici 2023).