di Antonio Ruggeri
Che le possibili opzioni in fatto di disciplina del meccanismo elettorale siano astrattamente numerose ed anche reciprocamente non poco differenziate è risaputo da tempo, così come si sa che un medesimo ingranaggio, calato in contesti politico-istituzionali diversi, può assumere forme e dar vita ad effetti parimenti diversi. Già solo per ciò, trovo alquanto approssimativo o, diciamo pure, culturalmente rozzo il riferimento al modello tedesco, che si innesta in un impianto istituzionale assai distante dal nostro (basti solo pensare che in Germania si dà la sfiducia costruttiva, da noi invece assente) e – ciò che più importa – poggia su un assetto dei partiti non comparabile col nostro.
Proprio qui è il punto. Il sistema elettorale, infatti, deve tener conto del quadro complessivo in cui s’inscrive ed opera. Non è – si badi – un dover essere apprezzabile unicamente al piano politico; certo è anche questo ma è – per ciò che qui più importa – anche (e soprattutto) un dover essere costituzionale. Se infatti si danno plurime e convergenti ragioni che inducono a prevedere che gli effetti attendibili da una certa riforma possono essere gravemente nocivi alla luce di certi parametri desumibili dalla Carta, allora la riforma stessa non è censurabile solo dal punto di vista politico – al quale, com’è chiaro, ogni opinione vale quanto le altre – ma lo è anche da quello del diritto costituzionale. Chiediamoci subito, infatti, se l’opzione in parola possa dirsi rispettosa dei parametri ai quali ogni disciplina in materia, quale che sia il sistema prescelto, è – a dire della Consulta – tenuta a conformarsi.
Non intendo, ovviamente, qui riprendere passo passo il ragionamento fatto dal giudice delle leggi, nelle sue recenti pronunzie in materia, rilevandone la linearità ovvero la interna, problematica congruità. Assumo, dunque, per buona l’idea secondo cui la disciplina stessa è obbligata a conciliare, bilanciandole in modo complessivamente appagante, rappresentanza e governabilità. Un’eccessiva attenzione prestata all’una ovvero all’altra sarebbe, infatti, foriera di guasti insopportabili ed esporrebbe perciò l’atto che vi facesse luogo all’annullamento per irragionevolezza. Ma qual è il vero parametro di tale giudizio, quello cioè alla cui luce apprezzare se possa dirsi riuscito l’intento volto al mutuo bilanciamento dei principi suddetti?
Il parametro – com’è chiaro – non è (e non può essere), qui come altrove, meramente normativo; piuttosto, è da rinvenire nel “fatto”, vale a dire nel contesto politico-istituzionale in cui la disciplina legislativa si inserisce, ad esso essendo chiamata a legarsi armonicamente e con esso perciò a fare – come suol dirsi – “sistema”.
Ora, il rapporto tra “fatto” e norma è, in via generale, alquanto complesso; lo è, poi, più ancora laddove – come qui – l’uno sia dato dall’assetto dei partiti e l’altra dalla disciplina del meccanismo di traduzione dei voti in seggi.
La norma infatti è, a un tempo, chiamata a conformarsi al “fatto”, alle sue complessive esigenze, e però anche a produrre effetti idonei a trasformare il “fatto” stesso, secondo valore. L’art. 3 della Carta, nella non casuale consecuzione sistematica ed inscindibile, mutua complementarietà dei suoi enunciati, emblematicamente rappresenta questa doppia vocazione, questo modo del tutto peculiare di porsi della norma rispetto al “fatto”.
Il proporzionale puro offre – come si sa – la più nitida e fedele rappresentazione fotografica dell’esistente ma – salvo terremoti politici conseguenti ad orientamenti degli elettori assolutamente imprevedibili – non opera per la trasformazione dell’esistente stesso: serve nel migliore dei modi la rappresentanza ma sacrifica, in certi contesti (quale il nostro), la governabilità.
Certo, qui c’è (rectius, ci sarà…) la soglia di sbarramento che porterà o all’uscita di alcune formazioni politiche dalla scena parlamentare oppure a singolari e però anche del tutto contingenti matrimoni d’interesse tra le stesse, obbligate ad unirsi per sopravvivere e però da se medesime portate, con ogni verosimiglianza, a divorziare all’indomani del voto, per poi magari risposarsi nuovamente alla successiva tornata elettorale. Sappiamo però quale sarà l’effetto di tale previsione in un contesto connotato da un tendenziale tripolarismo politico, corredato da qualche formazione minoritaria a contorno, che però – come tutti i contorni – non può giocare un ruolo di primo piano sulla scena politica (eccezion fatta per quelle indispensabili per la tenuta della maggioranza).
VRafforzandosi ulteriormente le tre formazioni o aggregazioni politiche di maggior peso, l’esito, al piano della composizione della eventuale maggioranza e del Governo che ne è espressione, è quello, già ampiamente previsto da molti notisti politici di vario orientamento, di un accordo post-elettorale tra il PD e il centrodestra, con il Movimento cinque stelle che, verosimilmente, si dichiarerà indisponibile ad entrare in qualsivoglia maggioranza. Un’altra ipotesi che è circolata in certi ambienti (ma che francamente giudico alquanto fantasiosa) è quella di una eventuale coalizione di maggioranza composta dai cinque stelle e dalla Lega. Non sono uno stratega politico e non desidero dunque avventurarmi in previsioni che potrebbero rivelarsi espressive di calcoli sbagliati; mi viene, però, da pensare che ai pentastellati convenga lucrare su una maggioranza arlequin, dalla quale essi si tengano alla larga, una maggioranza fatalmente condannata a consumarsi nel giro di qualche mese a beneficio proprio delle formazioni ad essa estranee e, dunque, principalmente del Movimento suddetto o della Lega, qualora dovesse essa pure chiamarsi fuori dalla maggioranza.
Naturalmente, è da mettere in conto che quest’ultima non si riesca a formare, nel qual caso ci si troverebbe costretti a tornare nuovamente alle urne, con gli effetti politici ed economici facilmente prevedibili (spread che schizza in alto e, ancora una volta, premio per i partiti o movimenti che hanno fatto del populismo la loro bandiera, movimenti – un tempo si sarebbe detto – “antisistema”, per riprendere una etichetta, nondimeno bisognosa di essere adattata al contesto presente e di caricarsi di inusuali, complessive valenze).
Ammesso, dunque, che si riesca a dar vita ad una nuova maggioranza e ad un nuovo Governo, la palese fragilità ed instabilità di entrambi daranno la stura a quanti – e verosimilmente saranno molti, anche tra coloro che oggi appaiono schierati e pronti a dare battaglia per far passare la nuova legge – grideranno a gran voce che occorre urgentemente modificare la neonata disciplina elettorale.
E così si ricomincerà tutto da capo: come nelle antiche pellicole del cinema muto in cui si ripetevano gags scontate, quale quella della torta in faccia al potente di turno. Peccato che qui vi sia materia abbondante per piangere, non per ridire…
Insomma, in un quadro alquanto confuso ed appannato, connotato da fluidità e mobilità degli elementi che lo compongono, un punto può tuttavia considerarsi con chiarezza fissato; ed è che il proporzionale, calato in un contesto in cui vi sono partiti o movimenti consistenti per forza elettorale e però indisponibili a qualsivoglia alleanza, non può che portare alla ingovernabilità. La quale – si ribadisce – non è solo un male politico ma anche (e di più) un male costituzionale.
Il vero è che – al di là delle roboanti dichiarazioni di sicumera politica, fatte da quanti cantano vittoria certa e netta alla prossima prova elettorale, che ovviamente lasciano il tempo che trovano – quello siglato tra le maggiori formazioni politiche è un accordo che nasce e si alimenta dalla paura, una paura matta di perdere o, comunque, di non riuscire a conquistare i consensi sperati; ed è chiaro che il proporzionale è allora visto come una sorta di misura di contenimento e, allo stesso tempo, di test idoneo a “pesare” le forze in campo, rimandando quindi ogni decisione strategica, di lungo periodo, al “dopo”.
Fare un uso strumentale delle regole del gioco politico – tralasciando ora ogni giudizio di ordine etico o di altro genere, che agli occhi dei giocatori in campo potrebbe apparire fuori posto e comunque frutto di disarmante ingenuità – è però insensato dal punto di vista del diritto costituzionale e, a conti fatti, un autentico boomerang anche allo stesso piano (e dal punto di vista) politico.
Francamente, non vorrei essere nei panni della Consulta che – è cosa certa – sarà chiamata a pronunziarsi anche sulla prossima legge elettorale, per la elementare ragione che ogni legge siffatta lascia sul terreno vittime illustri, pronte a dare battaglia su ogni fronte pur di vendere cara la pelle.
Possiamo argomentare la tesi secondo cui lo scenario, facilmente prevedibile, d’ingovernabilità conseguente alla scelta di un certo meccanismo elettorale è causa d’irragionevolezza giuridica dell’atto che vi fa luogo?
Certo, si può subito opporre che la volontà dell’elettore resta, in punto di principio, integra nella sua formazione ed espressione, che nessuno può dire come andrà a finire la partita, che anche col proporzionale puro nessuno può escludere in partenza che anche un solo partito si accaparri la maggioranza assoluta dei voti, e via dicendo.
Questi ed altri ragionamenti (che nel medesimo ordine d’idee potrebbero farsi) sarebbero tuttavia viziati da palese, macroscopico, astrattismo e non terrebbero conto dell’esperienza quale essa è.
Sono molti, invece, i casi in cui il “fatto” si fa parametro, si immette nel contenitore costituzionale, dando corpo e significato agli enunciati normativi, facendo sì che da essi discendano effetti in tutto e per tutto conseguenti al modo di essere del “fatto” stesso. Si pensi, per tutti, ai presupposti fattuali giustificativi dell’adozione dei decreti-legge ed al rilievo ad essi assegnato in sede di sindacato di costituzionalità sia dei decreti stessi che delle leggi di conversione. E ancora si pensi ai casi in cui, per effetto di un mutato sistema politico, la stessa revisione costituzionale è da considerare (non solo politicamente ma anche) giuridicamente obbligata, con specifico riguardo alla disciplina degli organi di garanzia o dello stesso procedimento di revisione, al fine di mantenere inalterato il livello di guardia e, con esso, salvaguardata la rigidità della Costituzione e rispettati gli equilibri istituzionali che connotano la forma di governo e, ancora più a fondo, la stessa forma di Stato.
Ovviamente, nessuno può puntare un fucile alla schiena dei parlamentari costringendoli a varare una legge di cui c’è bisogno o a darvi certi contenuti piuttosto che altri; ciò che, nondimeno, nulla toglie al carattere costituzionalmente doveroso del facere, altro essendo la prescrizione del comportamento ed altra cosa ancora l’esistenza di sanzioni a suo sostegno. È poi parimenti chiaro che la tesi qui patrocinata, come si è tentato di argomentare altrove, non comporta che ad ogni tornata elettorale e in conseguenza di pur minimi spostamenti di voti si debbano rivedere le regole costituzionali in parola; deve piuttosto trattarsi – come si diceva – di mutamenti di sistema politico, tali da consigliare l’adozione di nuovi canoni idonei a preservare la regolarità del gioco cui sono chiamati a partecipare le forze di maggioranza e quelle di opposizione.
Ora, se il “fatto” non è in grado di consentire il raggiungimento di obiettivi dalla Costituzione – per come letta e fatta valere nel “diritto vivente” – giudicati imprescindibili, quale nel caso nostro quello della governabilità unitamente all’altro della rappresentanza, occorre battere tutte le vie e dar fondo a tutte le risorse di cui si dispone in vista del conseguimento del fine della trasformazione del “fatto” stesso.
Ecco perché, in conclusione, resto convinto che una componente – pur tuttavia moderata, così come richiesto dalla Consulta, a pena della invalidità della disciplina che la recepisca ed esprima – di maggioritario sia costituzionalmente imposta, perlomeno nel presente quadro politico. È solo grazie ad essa, infatti, che può nutrirsi la speranza che, all’indomani del voto, possa venire a formazione una maggioranza sufficientemente coesa e, perciò, non oltre misura eterogenea.
L’augurio è che la miopia da cui sono afflitti molti dei politici in circolazione possa essere corretta per tempo, in modo da consentire loro di vedere ciò di cui anche uno sprovveduto in fatto di scelte politiche è in grado agevolmente di avvedersi, riportando dunque il confronto sulla futura disciplina elettorale lungo i binari costituzionali da cui sta paurosamente deragliando.
1 commento su “Ritorno al proporzionale: scelta politicamente miope e di dubbia conformità alla Costituzione”