Il taglio dei parlamentari: fin dove può arrivare l’ottimismo della volontà?

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di Alessandro Morelli

Diversi autorevoli sostenitori del SÌ ritengono che il drastico taglio del numero dei parlamentari sia un’occasione che andrebbe colta per rilanciare il ruolo e l’autorevolezza del Parlamento e persino per orientare il dibattito pubblico sul ripensamento del bicameralismo perfetto, i cui problemi da tempo si è tentato di risolvere, senza successo, con vari progetti di riforma.

Anche su queste pagine Giorgio Grasso si è espresso nello stesso senso, in un intervento che ho apprezzato per la pacatezza e la sobrietà dei toni, una sobrietà che, diversamente da quanto sostenuto in quel contributo, non credo affatto caratterizzi la revisione sulla quale saremo chiamati a pronunciarci il 20 e il 21 settembre (il “taglio delle poltrone”, per usare un’espressione ben poco sobria, spesso impiegata nel dibattito politico). Del resto, il fatto che si tratti di un taglio “drastico”, come ammettono tutti i commentatori, ne esclude la “sobrietà” (ossia la capacità di contenersi entro i limiti della necessità e della sufficienza). Il problema sta proprio qui: nel carattere eccessivo, sproporzionato, irragionevole del taglio, che comporterebbe una riduzione del numero dei parlamentari al di sotto del limite che, come ha chiarito Pasquale Costanzo, in una prospettiva sistemica, risulta sostenibile in riferimento alle esigenze di rappresentatività delle minoranze e dei territori, alle ragioni di funzionalità delle Assemblee e ai quorum previsti per la formazione degli organi di garanzia e per la procedura di revisione costituzionale.

Il punto su cui però vorrei soffermarmi è lo spirito che anima queste posizioni: l’ottimismo della volontà in forza del quale si ritengono superabili tutti gli innumerevoli segnali che, in questo caso, forniscono solidi argomenti al pessimismo della ragione. Gramscianamente, tuttavia, l’uno non potrebbe stare senza l’altro e anzi l’ottimismo della volontà dovrebbe rimanere ben ancorato al pessimismo dell’intelletto, nel quale soltanto si potrebbe trovare un metro affidabile di misurazione delle proprie aspettative.

È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro, diceva Niels Bohr. Tuttavia, credo che un calcolo realistico delle probabilità non lasci molte speranze a chi immagina che il taglio del numero dei parlamentari possa schiudere le porte a una rinascita del parlamentarismo. E ciò per almeno tre motivi.

Il primo è che il processo riformatore in corso – sì, perché è in atto un processo riformatore, anche se il testo di legge costituzionale in questione prevede un intervento puntuale – va in una direzione opposta: quella del depotenziamento ulteriore del ruolo del Parlamento e del rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta. In base agli altri progetti già presentati o solo programmati, si vorrebbero introdurre, tra l’altro, il “referendum propositivo”, che consentirebbe di approvare, tramite una consultazione popolare, un testo d’iniziativa legislativa popolare anche contro la volontà del Parlamento, e clausole di decadenza del parlamentare “ribelle” nei confronti del partito di riferimento (un’anti-defection clause alla portoghese, sulla quale mi permetto di rinviare a un mio precedente intervento). Un disegno complessivo che rafforzerebbe il controllo dei partiti (unici veri rappresentati) sugli eletti, in un contesto nel quale continuerebbe a rimanere irrisolto il problema della democraticità interna dei partiti stessi, nodo fondamentale più volte segnalato dagli studiosi, ma ostinatamente ignorato dai tanti agguerriti nemici della “casta”.

Quanto al potenziamento della democrazia diretta (che, però, come giustamente ha suggerito Massimo Luciani, andrebbe chiamata “democrazia partecipativa”), esso non può avere luogo a discapito delle istituzioni della democrazia rappresentativa. A meno che non si voglia tendere verso una sorta di “oclocrazia telematica”, un governo della massa (non del popolo), gestito grazie all’illusione che tutti possano decidere in tempi rapidi su tutto, con un semplice click.  

Il secondo motivo è che, anche per quanto riguarda il bicameralismo, le proposte che si stanno avanzando in questi giorni vanno in direzione opposta a quella di una razionalizzazione e di una differenziazione dei due rami del Parlamento: la sostituzione del principio dell’elezione “a base regionale” con il criterio circoscrizionale e la riduzione a diciotto anni dell’età prevista per l’elettorato attivo al Senato tendono a ridurre le pur poche differenze tra le due Camere, accentuando i caratteri del bicameralismo perfetto. E c’è già chi riprende la proposta di passare al monocameralismo che, in questa fase storica, avrebbe un significato ben diverso da quello che aveva la proposta della sinistra indipendente degli anni ’80. Una proposta che, avanzata in tutt’altro contesto, come ha recentemente spiegato Gianni Ferrara, aveva l’intento di riaffermare la centralità dell’istituzione parlamentare, non certo quello di svilirla.

Il terzo motivo si lega all’esperienza delle precedenti riforme approvate, che poi non hanno avuto alcun seguito o alle quali è stata data un’attuazione parziale e insufficiente, perché nel frattempo sono cambiate le maggioranze, che hanno provato (talora riuscendoci) a lasciare il proprio segno politico sulla Costituzione. E ovviamente si trattava di un segno di volta in volta diverso e incompatibile con quelli precedenti. E così, tra i diversi esempi che possono farsi, siamo ancora in attesa della riforma del Senato, in vista della quale l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V della Costituzione, prevedeva l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e degli enti locali (altra previsione mai attuata); dell’attuazione del “regionalismo differenziato” (peraltro con modalità che lo rendano costituzionalmente sostenibile), di cui tanto si è parlato nei mesi precedenti l’inizio dell’emergenza sanitaria. Per non parlare delle riforme avviate in vista dell’approvazione della riforma Renzi-Boschi (come la legge Delrio sull’assetto degli enti locali), bocciata nel referendum del 4 dicembre 2016.

Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma la conclusione è che occorre ripensare il metodo delle riforme e porre al centro del dibattito pubblico i temi della revisione costituzionale e del rafforzamento delle garanzie previste dall’art. 138 Cost. Affinché il pessimismo della ragione possa trovare una valida alleata in un’effettiva rigidità costituzionale.

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1 commento su “Il taglio dei parlamentari: fin dove può arrivare l’ottimismo della volontà?”

  1. 17 giugno 1789: La Rivoluzione francese non avrà luogo.

    Si avvertono coloro che ci avevano fatto affidamento che, a causa della pletoricità dell’Assemblea Nazionale, la quale, anche dopo l’ineluttabile esclusione di fatto del Primo e del Secondo Stato, continua ad assommare a ben 1145 membri a fronte di 28 milioni di abitanti, non potrà darsi corso a quanto inizialmente preconizzato (dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino calendarizzata per il 26 agosto fino alla Costituzione prevista per il 13 settembre 1791).
    Fino a diverso avviso, pertanto, la potestà statale resterà intatta nelle mani del Sovrano che si avvarrà di una snella e prescelta schiera di collaboratori.
    (a cura di Pasquale Costanzo)

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