Le novità della COP28 tra uso delle parole e Costituzione

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di Michele Carducci

 Qualche giorno fa si è chiusa la COP28, la Conferenza delle Parti sul clima, prevista come riunione annuale degli Stati che aderiscono alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) e riconvertita, dall’art. 4 dell’Accordo di Parigi del 2015, in «decisione pertinente» alla definizione degli obblighi indicati dall’accordo stesso (c.d. CMA), che funge, a sua volta, da «strumento giuridico» dell’UNFCCC, ai sensi dell’art. 2 di quest’ultima.

Si è trattato di un evento molto controverso per varie ragioni, in particolar modo perché celebrato a Dubai sotto la presidenza del Sultan Al-Jaber, amministrazione delegato della compagnia petrolifera nazionale Adnoc, e per il fatto di aver coinvolto ai tavoli di discussione una quantità mai registrata prima di multinazionali dell’energia fossile (oltre 2000 rispetto ai poco meno 200 Stati ufficialmente Parti della Conferenza: cfr. A record number of fossil fuel representatives are at this year’s COP28 climate talks).

Il documento finale, tuttavia, è stato il frutto del consenso formalizzato esclusivamente dagli Stati parte dell’Accordo di Parigi. Esso, in altre parole, acquisisce uno specifico valore giuridico proprio in forza dell’art. 4 di quell’accordo, che lo ha legittimato come «decisione pertinente» ai suoi contenuti ma anche in derivazione dall’art. 2 dell’UNFCCC: una sorta di integrazione normativa tra COP28, Accordo di Parigi e UNFCCC.

Pertanto, quel documento finale, denominato Decision -/CMA.5 Outcome of the first global stocktake, merita attenzione per una serie di inediti contenuti, da leggere e interpretare su due fronti:

– secondo la buona fede oggettiva, richiesta dagli artt. 26, 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969;

– nella collocazione di UNFCCC e Accordo di Parigi nel sistema delle fonti dei singoli ordinamenti giuridici.

Dal punto di vista della Convenzione di Vienna, la Decision -/CMA.5 identifica (ai sensi dell’art. 31 n. 3 lett. a della suddetta Convenzione) un accordo «ulteriormente intervenuto tra le parti circa l’interpretazione del trattato» [ovvero l’Accordo di Parigi] e «l’attuazione delle disposizioni in esso contenute» [ovvero l’art. 4 dello stesso in funzione degli obiettivi dell’UNFCCC]», sicché le parole, in essa enunciate, non possono assumere (per esplicita proibizione dell’art. 32 della cit. Convenzione) significati «ambigui od oscuri» o che conducano a «un risultato chiaramente assurdo o non ragionevole» sui contenuti dell’accordo di origine [quello di Parigi e, a monte, l’UNFCCC].

È una constatazione importante, dato che proprio sull’uso delle parole le Parti della Conferenza hanno lungamente e faticosamente discusso (si v., per tutti, le cronache curate da Italian Climate Network e da ASviS), giungendo alla stesura di sintagmi ed enunciati che, considerati isolatamente dai canoni integrativi appunto della Convenzione di Vienna, non potrebbero che permanere ambigui e non ragionevoli.

Ci si riferisce, in particolare, all’espressione «transitioning away» (transizione), utilizzata con riguardo all’uso delle fonti fossili, rispetto ai termini, originariamente proposti, di «phase out» (eliminazione graduale) e «phase down» (riduzione graduale).

Che cosa significa “transizione”?

Per rispondere, si deve leggere il Paragrafo 28 della Decision: le Parti, riconosciuta «the need for deep, rapid and sustained reductions in greenhouse gas emissions in line with 1.5°C pathways … taking into account the Paris Agreement…», si impegnano singolarmente a «transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner, accelerating action in this critical decade, so as to achieve net zero by 2050 in keeping with the science».

Ecco individuata la risposta corretta: le Parti si impegnano ad “abbandonare” (transitioning away from) le fonti fossili nei loro sistemi energetici, dentro il quadro dell’Accordo di Parigi (dunque nella sua funzionalità agli obiettivi dell’UNFCCC) e nel triplice vincolo di farlo:

a) «in line with 1.5°C pathways»;

b) «accelerating action in this critical decade»;

c) «in keeping with the science».

Si tratta di una novità assoluta e inaspettata, date le criticabili premesse della Conferenza.

Per la prima volta nella storia del diritto climatico, un documento internazionale, da interpretare nella buona fede oggettiva della Convenzione di Vienna, non parla più soltanto di «greenhouse gas emissions», bensì di «fossil fuels in energy systems» ossia di combustione fossile a base dell’intero sistema energetico umano contemporaneo, richiedendone l’abbandono («transitioning away from»).

Qual è lo scopo di questo nuovo vincolo?

A questa seconda domanda, i primi commenti hanno stentato a individuare la risposta giuridicamente corretta, limitandosi a collegare la formula «transitioning away from» con l’espressione «so as to achieve net zero by 2050». Hanno così concluso che l’abbandono della combustione fossile opererebbe solo ed esclusivamente in funzione della neutralità climatica al 2050 (si v., per esempio, l’editoriale ASviS I prossimi passi per l’Italia dopo le decisioni della Cop 28).

Non è così. Come già accennato, il vincolo concordato dagli Stati nella Decision -/CMA.5 non è affatto temporale («by 2050»), ma quali-quantitativo («in line with 1.5°C pathways»). La differenza è enorme ed è spiegata proprio dalla medesima Decision, espressiva di ulteriori novità, mai riscontrate prima nei documenti di diritto climatico internazionale.

Con essa, infatti, gli Stati:

a) riconoscono esplicitamente l’esistenza della “crisi climatica” («climate crisis»), ovvero una situazione di pericolo produttiva di impatti che stanno rapidamente accelerando («are rapidly accelerating»),

b) per cui si impegnano a rispondere ad essa urgentemente («urgency of responding to the climate crisis») in questo decennio critico («to address the climate crisis in this critical decade»),

c) in modo da mantenere l’obiettivo di 1,5°C a portata di mano («to keep the 1.5 °C goal»),

d) allo scopo di ridurre significativamente i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici («significantly reduce the risks and impacts of climate change»),

e) molto più bassi con un aumento della temperatura di 1,5°C rispetto a 2°C («much lower at the temperature increase of 1.5°C compared with 2°C»).

Il «transitioning away from fossil fuels in energy systems» serve a tutto questo: a evitare il peggio, non a rispettare una scadenza (il 2050), di per sé compatibile con qualsiasi aumento della temperatura media globale nella neutralità climatica pur conseguita.

Del resto, un limite esclusivamente temporale è contemplato solo per il metano, da ridurre sostanzialmente entro il 2030 («accelerating and substantially reducing non-carbon-dioxide emissions globally, including in particular methane emissions by 2030»): e questo si spiega col fatto che il metano, originariamente inteso come “soluzione ponte” all’emergenza climatica, in realtà peggiora il pericolo, avendo una forza climalterante di breve periodo (25 anni) ben ottanta volte superiore alla CO2.

Se questo è il quadro letterale della Decision di COP28, le sue novità non si fermano qui. Va detto, infatti, che la COP28 è stata intitolata Outcome of the first global stocktake, perché funge anche da certificazione definitiva del primo “bilancio globale” (Global Stocktake) degli adempimenti climatici statali, nei termini richiesti dall’art. 14 dell’Accordo di Parigi (in merito, si v. Cardelli, Se gli Stati riconoscono di sbagliare sul clima).

Nella Decision, la certificazione è dichiarata negativa, sia sul piano formale che su quello sostanziale:

– sul piano formale, perché gli Stati prendono atto di non essere ancora sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi («not yet collectively on track towards achieving the purpose of the Paris»);

– sul piano sostanziale, dato che la riscontrata inadeguatezza è connessa alla “preoccupazione” in merito non solo all’esaurimento del c.d. “Carbon Budget” residuo (ovvero i gas serra antropogenici ancora emettibili per rispettare gli obiettivi di Parigi: cfr. Cardelli, «Bilancio di carbonio» e diritti costituzionali; e Trivi, Il salvavita del “bilancio di carbonio” e il caso “Giudizio Universale”), ma anche all’incidenza negativa della quantità già emessa sulla probabilità, almeno al 50%, di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C («concern that the carbon budget consistent with achieving the Paris Agreement temperature goal is now small and being rapidly depleted and acknowledges that historical cumulative net carbon dioxide emissions already account for about four fifths of the total carbon budget for a 50 per cent probability of limiting global warming to 1.5 °C»).

Sempre per la prima volta, sono concordati parametri di probabilità («50 per cent probability») nella valutazione delle azioni statali dentro il “Carbon Budget” residuo «in line with 1.5°C pathways».

Come si vede, il 2050 non c’entra nulla. La cornice dei vincoli valutativi dell’azione (non a caso intitolata “Context and cross-cutting considerations” nei termini dell’art. 31 n.1 della cit. Convenzione di Vienna) è data da altro:

– dall’opzione preferenziale per l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura media globale a non oltre 1,5°C (invero già affermato dal Glasgow Climate Pact del 2021);

– dall’urgenza di agire nel decennio critico;

– dal rispetto del “Carbon Budget” residuo;

– dall’assunzione del parametro della probabilità del 50% nella valutazione delle azioni.

Dentro questa cornice si colloca il «transitioning away from fossil fuels in energy systems». Qualsiasi ipotesi differente contrasterebbe con la lettera della Decision -/CMA.5 e, di riflesso, con i canoni della Convenzione di Vienna sugli accordi di «attuazione delle disposizioni» di Parigi.

Non sarebbe in buona fede. Ma non sarebbe neppure «ragionevole» ai sensi dell’art. 32 sempre della Convenzione di Vienna, dato che implicherebbe, di fatto, la volontà di produrre impatti peggiori nel superamento del “Carbon Budget” residuo, consumando così un atto doloso sul neminem laedere nella conclamata situazione di pericolo della «climate crisis» e nonostante il dichiarato (nella medesima Decision) sforzo di evitare, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici («to avert, minimize and address loss and damage associated with climate change impacts»).

Sarebbe, infine, anche antiscientifica. Difatti, «in keeping with the science», è noto che la salute umana passa dall’abbandono dei combustibili fossili: prima si abbandonano, meglio è per tutti e per tutto, con benefici e co-benefici comunque sempre superiori ai costi (cfr. l’annuale The Lancet Countdown on health and climate change).

Da questo punto di vista, la COP28 sembra aver implicitamente accolto il c.d. “schema di Williams” (cfr. Williams, Tackling Climate Change: what is the Impact on Air Pollution?), secondo cui la soluzione migliore per la protezione di tutti gli esseri umani, sia nella loro dimensione esistenziale (minima) di sopravvivenza che in quella qualitativa (espansiva) di accesso alle condizioni di benessere, nella proiezione intertemporale dei beni vitali a sostegno di entrambi (aria pulita, cibo, salute, abitabilità, servizi ecosistemici accessibili a tutti ecc.) consista nella definitiva eliminazione dei combustibili fossili, in ragione del “doppio effetto” di non sforare il “Carbon Budget” per il controllo dell’aumento della temperatura e di ridurre al minimo l’inquinamento da polveri sottili.

Insomma, «transitioning away from fossil fuels in energy systems» opera anche pro rights (pro vita): il che è del tutto coerente, ancora una volta, con la cit. Convenzione di Vienna, lì dove, all’art. 31 n. 3 lett. c, essa abilita a prendere in considerazione «ogni norma pertinente di diritto internazionale», incluse evidentemente pure quelle sui diritti umani.

Ecco perché le novità della COP28 sono importanti: rafforzano l’apertura del diritto climatico alla tutela effettiva dei diritti umani rispetto alla soglia di pericolo preferita («in line with 1.5°C pathways»).

Qui si inserisce il secondo fronte di lettura della Decision di COP28, relativo alla sua collocazione, insieme a UNFCCC e Accordo di Parigi, nel sistema delle fonti dei singoli ordinamenti giuridici.

Il tema può essere riassunto dai seguenti ultimi interrogativi: si potrà continuare a interpretare e applicare le fonti del diritto climatico ignorando tutte le descritte implicazioni del «transitioning away from fossil fuels in energy systems» deciso a Dubai? Lo si potrà fare senza intravedere connessioni con le Costituzioni dei singoli paesi?

Sembra proprio di no, almeno per l’Unione Europea e per l’Italia, entrambe – com’è noto – aperte al diritto internazionale, generale e pattizio, e alla tutela dei diritti fondamentali.

Valgano, per sintesi, almeno tre spunti di analisi:

– l’applicazione del «principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente», contemplato dall’art. 191 n. 2 TFUE e dalla Corte di giustizia interpretato nel senso di imporre interventi risolutivi sulle fonti originarie di produzione della catena causale dei danni (cfr. causa C-653/13), appare destinato a coniugarsi con il «transitioning away from» per evitare ulteriori danni sul sistema climatico e, di conseguenza, sulla salute umana;

– l’altro principio europeo DNSH (Do No Significant Harm), inserito dal Regolamento UE n. 2020/852 proprio per non compromettere la mitigazione climatica, non potrà non valutare il contenuto “significativo” del danno a questo obiettivo climatico, alla luce del parametro quantitativo del 50% di probabilità sul rispetto del “Carbon Budget” residuo;

– infine, il concetto italiano di «preminente rilievo del principio della massima diffusione delle energie rinnovabili», consolidato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cons. Stato Sez. IV nn. 8235/ 2023 e 8258/2023) e costituzionale (cfr. Corte cost. sentt. nn. 121/2022 e 216/2022), non potrà non conoscere ulteriore enfasi applicativa nella prospettiva di contribuire anche alla tutela dei diritti, altrimenti minacciati dalla persistenza della combustione fossile.

Il diritto climatico sta sempre più maturando come diritto di contenuto costituzionale. È un bene non solo per i diritti, ma per il Pianeta.

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