Il “contratto di governo”: quando la retorica politica supera diritto pubblico e diritto civile

di Valeriana Forlenza*

La versione definitiva del “contratto di governo” fra M5S e Lega ha ottenuto il lasciapassare da parte degli iscritti del movimento a seguito della consultazione lanciata sulla piattaforma digitale Rousseau. All’indomani dell’accordo il leader Di Maio si affrettava a dichiarare “Non è un’alleanza” – pena altrimenti la lettera scarlatta “I” – “ma un contratto di governo”.

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“Contratto di governo”: una riflessione sulle nuove parole del diritto pubblico

di Omar Chessa*
Un tempo i governi nascevano da un “accordo di coalizione”. In questi giorni, invece, si predilige la formula “contratto di governo”. Cos’è successo? Nulla di importante – potrebbe rispondersi – perché la sostanza rimane la stessa. Ma le parole non sono mai neutrali. E l’uso del termine “contratto” per significare quello che un tempo era chiamato “accordo” o “compromesso” nasconde un grumo, forse inconfessabile, di paure e pregiudizi che vanno oltre la dimensione psicologica, per riguardare anche quella politico-costituzionale. Non c’è dubbio che oltre venti anni di “regolarità maggioritaria” abbiano lasciato un segno nella coscienza collettiva e nel senso comune. Mentre Hans Kelsen, uno dei principali teorici novecenteschi della democrazia parlamentare, celebrava il «compromesso parlamentare» tra partiti diversi quale fattore di neutralizzazione del conflitto politico-sociale e garanzia di qualità della legislazione, invece l’abbandono in Italia del sistema proporzionale puro all’inizio degli anni Novanta si accompagnò a un mutamento di paradigma nella percezione diffusa degli accordi parlamentari post-elettorali, ai quali dovrebbero sempre preferirsi – così vuole il senso comune che egemonizza il dibattito pubblico – gli accordi pre-elettorali, direttamente premiabili o sanzionabili dagli elettori col voto. E fu così che il compromesso parlamentare iniziò a essere chiamato, con intento palesemente spregiativo, “inciucio”.

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