Cresce il gettito del 2 per mille ma il piatto dei partiti piange ancora

di Antonio Ramenghi

Gli elettori che a oggi si dichiarano non-votanti e quelli che dicono di essere ancora indecisi sul proprio voto sfiorano nei sondaggi il 50%. Tutti i partiti sono impegnati a recuperare al voto o alla decisione questa massa enorme di elettori. Il dato viene commentato nei dibattiti televisivi e negli editoriali come la prova della disaffezione dei cittadini verso la politica e i partiti. E in grande misura è così.

Ma c’è un altro dato che va in controtendenza rispetto a questo refrain, ed è quello relativo alla destinazione ai partiti del 2 per mille da effettuare con la dichiarazione dei redditi, unica fonte di finanziamento rimasta ai partiti, oltre le donazioni, dopo l’entrata in vigore della legge 13 del 2014. Se si guardano i dati complessivi del “gettito” dal 2014 a oggi si registra un andamento che appare in netta controtendenza rispetto al refrain-disaffezione: nel 2014 il 2 per mille portò ai partiti un totale di 325.711 euro; nel 2015 il totale è salito a 9.600.000 euro; nel 2016 il totale è salito a 11.763.000 mila euro e nel 2017 è arrivato a 15.315.000. Oltre 15 milioni di euro che i cittadini hanno liberamente scelto di destinare ai partiti politici. A fare la parte del leone in questa torta del 2 per mille è il Partito democratico che nel 2017 ha attirato circa 600 mila contribuenti per un importo pari a 8 milioni di euro, cioè oltre la metà dell’intero ammontare. A seguire la Lega Nord con 172 mila contribuenti per un totale di 1.900.000 euro. Forza Italia ebbe 62.000 contribuenti per un totale di 850.000 euro.

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I corvi
della democrazia

di Giovanni De Plato

Peccato che non abbia avuto il dovuto risalto la importante decisione della Procura generale di Bologna di riaprire le indagini sulla strage alla stazione ferroviaria del 2 agosto di trentotto anni fa, come da richiesta dei familiari delle vittime. Come non ha avuto il giusto rilievo la riapertura delle indagini da parte della procura di Palermo sul delitto del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella avvenuto sempre nel 1980. Le procure ordinarie di Bologna e di Palermo avevano già deciso di archiviare, ritenendo accertata la verità e condannate le responsabilità. E i mandanti?

Si deve alla competenza, all’esperienza e al senso del dovere di  Ignazio De Francisci, magistrato della procura di Bologna, e di Francesco Lo Voi procuratore di Palermo se i misteri dell’Italia repubblicana non sono stati occultati definitivamente. La verità sulle stragi (chi sono gli effettivi mandanti e quali erano le loro finalità) è ancora tutta da indagare e di certo non ci si può accontentare di verità parziali o incomplete, emerse dai diversi gradi dei processi finora celebrati. La riapertura delle indagini a Bologna e a Palermo riaccende finalmente i riflettori su quella rete, complessa e mai svelata, fatta di organizzazioni eversive, di mafie, servizi deviati, società segrete, logge, venerabili e conti in banche svizzere.

La riservatezza delle nuove indagini non lascia trapelare informazioni sui tanti fili eversivi, finora ignorati, che legano la strage di Bologna al delitto Mattarella. E la verità sulle altre stragi, piazza Fontana 1969, piazza della loggia Brescia e treno Italicus 1974? Si ha l’impressione che finora le indagini abbiano considerato ogni eccidio come un fatto a sé, non valutando se fossero dei tasselli che  formano una possibile trama della strategia eversiva che ha funestato per lunghi decenni la repubblica italiana. Strategia che cercò di colpire a morte lo Stato democratico con la strage di Via Fani e il rapimento di Aldo Moro marzo 1978 seguito dall’uccisione dello statista da parte delle Brigate rosse nel maggio dello stesso anno. Il teorema dello stragismo degli opposti estremismi (sinistra e destra eversive) e dello stragismo di Stato (servizi segreti e deviati) si sono dimostrati nei fatti una chiave che non ha permesso di arrivare alla verità. Di questa drammatica realtà che attanaglia ancora l’Italia di oggi (come si spiega il caso Consip?) non c’è traccia nei programmi e nei dibattiti tra i partiti in vista delle prossime elezioni politiche. Le forze della destra non amano trattare le responsabilità impunite o aprire i propri armadi. E quelle di sinistra non sanno come affrontare gli attacchi alla democrazia e fare della ricerca della verità una priorità del loro programma di governo. Siamo circondati e minacciati da neri corvi, come nel film  del 1963 “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock.

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Alla ricerca
del programma
che non c’è

di Antonio Ramenghi

Mancano 45 giorni al 4 marzo data delle elezioni politiche ma se cercate sui siti dei partiti non trovate ancora i loro programmi elettorali. Cioè quei testi che, nero su bianco, dovrebbero costituire un impegno vincolante e servire agli elettori per orientarsi e decidere il loro voto. A tutt’oggi questi programmi  non li trovate ma navigando vi appariranno solo slogan più o meno azzeccati, aggreggioni agli avversari, dichiarazioni fantasmagoriche, promesse a pioggia le più strampalate.

A ben vedere fare un programma serio che dica dove e come si vuol portare il Paese nei prossimi cinque anni non risulta un esercizio facile anche perchè questi programmi dovrebbero essere di coalizione. Così, per esempio i leader della coalizione quadrupede di Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia-Noi con l’Italia hanno sin qui fatto annunci molto discordanti: abolizione del jobs act, no solo revisione del jobs act, ma non è detto; abolizione della legge Fornero, no solo correzioni dove c’è da correggere, forse niente; tassazione della prostituzione, no non si può, ecc. ecc.

Non è che il centrosinistra stia meglio: a tutt’oggi, festa di Sant’Antonio, protettore degli animali, non si è neppure ancora realizzato il miracolo della composizione certa della coalizione, anche questa quadrupede, perchè Bonino sta ancora trattando sul peso di +Europa e la Lorenzin è in preda a doglie da seggio. Impossibile che per ora esca un programma elettorale comune anche dal centrosinistra.

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Non ci sono più
le allodole di una volta

di Antonio Ramenghi

Non passa giorno che il “promessometro” si arricchisca di qualche promessa dei leader dei partiti. Con qualche accenno, pochi, di cautela. Qualcuno ha prudentemente rivisto al ribasso le sparate dei primi giorni di campagna elettorale. Probabilmente ha fatto presa, con un po’ di ritardo, l’invito del Presidente della Repubblica ad annunciare promesse che siano accompagnate dalla virtù della concretezza. Ancora poche sono quelle accompagnate dal corrispondente piano di copertura finanziaria. Sicuramente gli specchietti per allodole non ottengono l’effetto sperato sugli elettori già stati presi in giro nelle tornate elettorali precedenti.

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A Christmas Carol: il mercato si scopre buono (e la Sinistra con un programma politico)

di Roberto Bin

Non è vero che il mercato sia necessariamente senza cuore, naturalmente insensibile ai bisogni della gente – se non per ciò che riguarda i consumi e i consumatori. Anzi, il mercato non è nulla “necessariamente”, non esiste come dimensione naturale. È un’istituzione artificiale, come tutte le altre istituzioni umane, edificata e organizzata da un insieme assai affollato di regole poste dai poteri pubblici (come spiega un libro fondamentale e profetico scritto da K. Polanyi nel 1942: La grande trasformazione). Il problema è: chi detta queste regole?

La storia dell’integrazione europea è esemplare. Ci mostra con chiarezza come viene costruito un mercato – il “mercato interno” – attraverso la produzione incessante di regole. La libertà dei mercati dipende dal diritto: il laissez-faire è solo una distorsione farsesca di ciò che il mercato è e richiede per funzionare a dovere. Per cui è il sistema delle regole che fa del mercato il mercato, e questo sistema può tranquillamente comprendere anche i diritti. Ed è ciò che in parte è successo. Ben prima che l’Atto unico (1987) e i trattati successivi riconoscessero queste competenze alle istituzioni comunitarie, esse avevano varato una quantità di norme, spesso molto avanzate (sicuramente più avanzate della legislazione d’Italia, che infatti ha arrancato con difficoltà per adeguarsi) per assicurare ai cittadini la tutela di diritti ben lontani dal clou della politica di mercato: l’ambiente e la tutela della salute da ogni forma di inquinamento, la protezione della sicurezza dei consumatori, l’assistenza previdenziale e sanitaria dei lavoratori transfrontalieri, la non discriminazione ecc. Progressivamente tutta una serie di beni e di interessi che noi potremmo tranquillamente rubricare come “diritti fondamentali” sono diventati oggetto di accurata disciplina europea. Si noti: non in forza di uno specifico titolo di competenza, ma esclusivamente per regolare la concorrenza e il mercato. Il mercato e la concorrenza – si è pensato – non possono svolgersi a danno della sicurezza dei cittadini e neppure consentendo alle imprese di qualche Stato permissivo di scaricare sulla collettività i costi ambientali e sanitari derivanti dalla produzione; altrettanto intollerabile è sembrato ad un certo punto che la libera circolazione delle imprese si svolgesse a detrimento della sicurezza dei lavoratori e della loro protezione pensionistica. Ecco che per regolare il mercato e per impedire alle imprese di vincere la concorrenza tagliando i “costi” relativi ad alcuni beni collettivi, si è progressivamente riempito lo spazio europeo di regole sempre più incisive.

Perché si siano scelte queste voci di intervento e non si siano inclusi altri diritti da proteggere (per esempio, il livello salariale minimo, la sicurezza del posto di lavoro, la protezione sindacale, l’età della pensione e il relativo trattamento, le misure di tutela della maternità, il livello dei servizi sociali alla famiglia, il livello massimo di prelievo fiscale e così via) è il frutto di una scelta politica ammantata da rispetto per il mercato: non del mercato in sé, che è una costruzione artificiale, ma dell’ideologia dell’economia di mercato. In essa quello che al più interessa – e perciò interessa alle istituzioni europee – è garantire la “libera circolazione dei lavoratori” (a cui vanno assicurati trattamenti previdenziali, assistenziali ecc. equiparati a quelli goduti dai lavoratori del paese in cui si stabiliscono), non uno standard comune di questi trattamenti: e neppure che alle imprese sia impedito di godere dei vantaggi conseguenti alla delocalizzazione dei propri impianti produttivi in paesi dove il trattamento salariale, assistenziale, previdenziale ecc. sia meno favorevole ai lavoratori. È un’esigenza del mercato questa? No, è un interesse egoistico delle imprese, che così possono aumentare i loro ricavi.

Nella visione ideologica, l’economia di mercato è un mondo magico, paradiso delle astrazioni, in cui il consumatore e il produttore si scambiano beni mediante il meccanismo dei prezzi, e il perfetto equilibrio dei salari è prodotto dallo scambio tra domanda e offerta di lavoro. Da questo mondo – dicono i sostenitori del libero mercato – è bene che la politica si tenga fuori, limitandosi a combattere le “esternalità negative” che possono rompere la magia degli scambi, laddove le esternalità sono anzitutto gli interventi delle autorità politiche. Bene quindi se gli organi pubblici intervengono – per esempio – per limitare l’inquinamento causato da processi produttivi o per favorire la completa libertà degli scambi, abbattendo le barriere doganali o le misure legislative nazionali “ad effetto equivalente”; bene se lottano contro i monopoli e obbligano alla privatizzazione dei beni pubblici; bene se definiscono condizioni essenziali di sicurezza – fisica, ma anche giuridica e informativa – dei consumatori. Ma ogni passo più in là compiuto dai poteri pubblici rischierebbe di influire negativamente sull’equilibrio e l’efficienza del sistema. Di quale sistema si parla? Chi l’ha scelto questo sistema? In che modo è possibile cambiarlo?

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Non basta indignarsi bisogna attivarsi

di Giovanni De Plato

L’unità delle sinistre è durata meno di un giorno. E’ davvero sconcertante vedere come i suoi dirigenti subito dopo la grande e bella manifestazione antifascista di Como siano riusciti a bruciare sui fuochi della polemica quell’iniziativa politica unitaria a forte partecipazione di giovani. Che senso ha paragonare Grasso e Boldrini a Fini, come ha fatto Renzi, segretario del Pd? Che senso ha riproporre il dialogo politico con i 5 Stelle, come va facendo Bersani di Liberi e uguali? 

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Maroni dimostra la dispendiosa inutilità del referendum lombardo-veneto

di Antonio Ramenghi

La controprova di quanto sostenuto in alcuni articoli di questo giornale circa l’inutilità del referendum lombardo-veneto e la sua vera natura è arrivata assai prima di quanto ci si potesse aspettare. Ed è arrivata innanzi tutto dalla Lombardia e dal suo presidente Roberto Maroni.

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Un nuovo patto contro la sanità pubblica

di Giovanni De Plato

Gli inserti settimanali dedicati all’economia dei maggiori quotidiani italiani insistono nell’invitare gli imprenditori ad investire nel settore salute e benessere perché è un vantaggioso business, anche se richiede particolari doti di “diligence”.

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